Da sempre l’architettura ha avuto un ruolo importante nel consolidare i rapporti di potere all’interno delle società. Partendo dall’osservazione della produzione architettonica contemporanea e in particolare di alcune opere di autori di fama internazionale presentate nel numero, appare evidente come la componente estetica di questi edifici, spesso pervasa da una volontaria autoreferenzialità, costituisca elemento fondamentale e strategico di marketing nei confronti dell’autorialità del progettista, del prestigio della committenza, dell’attrattività del contesto urbano. Esemplari in questo senso sono la galleria commerciale di OMA in Corea del Sud e il centro culturale LUMA ad Arles, in Francia, di Frank Gehry, ma anche il museo atelier Audemars Piguet in Svizzera di BIG, edifici dalle singolari sembianze la cui immagine è fortemente legata al messaggio promozionale richiesto dai rispettivi finanziatori. L’edificio di OMA, un monolite dal carattere scultoreo, gioca sul tema dello spiazzamento attraverso gli effetti materici, ibridando la tipologia classica del centro commerciale multipiano con la presenza di un percorso pubblico che innesca una serie di stimolanti relazioni interno-esterno. Anche Gehry ricorre all’espediente del trattamento scultoreo come unico modo per far emergere la torre che, con la sua fantasiosa geometria, segnala la presenza del nuovo hub dedicato alle arti, finanziato da una facoltosa ereditiera svizzera nella nota cittadina francese di Arles. Un’operazione più sottile ma improntata a principi analoghi è condotta da BIG nell’edificio commissionatogli dalla famosa maison orologiera Audemars Piguet per esporre i propri prodotti e rinnovare l’immagine dell’azienda. In questo caso il contesto offre allo studio l’occasione di progettare un’icona quasi perfetta nel comunicare i valori della storica industria: l’edificio, con un movimento a doppia spirale che allude alla meccanica degli orologi scheletrati, grazie alla copertura completamente verde si integra nel paesaggio circostante dal quale sembra nascere ma da cui si differenzia attraverso la facciata completamente vetrata. L’opportunità di lasciare un segno nei luoghi più disparati del pianeta sembra prevalere sull’impegno richiesto anche all’architetto nell’affrontare le complesse problematiche sociali, economiche e ambientali odierne per ripensare comportamenti e stili di vita. Da queste constatazioni si innescano alcune riflessioni che riguardano il progetto di architettura e la sua capacità di oltrepassare la semplice soddisfazione di bisogni di ordine pratico e contingente legati alle richieste della committenza, per partecipare viceversa di quel più ampio processo di costruzione di una società nuova di cui oggi c’è urgente bisogno. Il progetto può essere tuttora inteso come ricerca sostenuta da una visione sociale e politica o è mera risposta a bisogni di ordine pratico e contingente? L’architetto è ancora in grado di svolgere il ruolo di intellettuale capace, attraverso la costruzione di spazi, di prefigurare i futuri assetti della società? L’idea moderna che l’edificazione dell’architettura e della città possano far parte di un processo più generale di costruzione di una società nuova è da considerarsi definitivamente superata?
ARCHITETTURE COME ICONE URBANE – Pag. 6
Editoriale di Domizia Mandolesi
IL RUOLO DELLE ARCHITETTURE ICONICHE NEGLI URBAN MEGAPROJECTS DELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE – Pag. 8
Leslie Sklair
ARCHITETTURA E URBANISTICA TRANSNAZIONALI. IL TRASFERIMENTO DEI PROGETTI E IL RAPPORTO CON IL CONTESTO – Pag. 26
Davide Ponzini
Little Island è stata progettata con l’intento di creare uno spazio pubblico capace di imporsi visivamente e attrarre visitatori grazie ai tratti architettonici certamente insoliti perfino per il vivace e modaiolo Meatpacking District di Manhattan in cui è collocata. Un’opera originale per il suo essere allo stesso tempo scultura, architettura e infrastruttura dalle spiccate valenze paesaggistiche, in grado di modificare la percezione e la qualità ambientale di un intero brano di città.
Le aspettative della committenza prevedevano un padiglione da collocare su un nuovo molo adagiato sul fiume Hudson. Thomas Heatherwick racconta come, a partire da questa richiesta, il gruppo di lavoro abbia colto l’opportunità per sviluppare un luogo che coinvolgesse i newyorkesi attraverso un inconsueto parco pubblico.
Il progetto ha l’ambizione di riservare ai visitatori un’esperienza unica: l’emozione di trovarsi sull’acqua, la sensazione di lasciarsi il traffico alle spalle e di essere immersi nella vegetazione, dimenticando di essere nel mezzo della città più densamente popolata degli Stati Uniti, è amplificata da una topografia artificiale in grado di creare spazi performativi e punti di osservazione. Little Island è sospesa al di sopra di 132 pilastroni di altezze differenti, sormontati da “vasi” prefabbricati in calcestruzzo: vere e proprie sculture le cui forme organiche generano una singolare selva artificiale ben ancorata al fondale marino.
La maison orologiera Audemars Piguet, una delle più longeve e prestigiose del mondo, vanta tra le sue creazioni pezzi che hanno fatto scuola. Ad oggi, l’azienda sente la necessità di rinnovare la propria immagine, gettando un ponte tra passato e presente. Inevitabile la scelta di agire sull’architettura per simboleggiare questo cambio d’abito; inevitabile radicarsi ancor di più nel contesto di Le Brassus, dove da più di centocinquant’anni la sede storica dialoga con il contesto naturale delle Alpi Svizzere. L’impulso programmatico è ben chiaro: il nuovo edificio dovrà rapportarsi a una preesistenza storica legando insieme percorso espositivo e ambiente di lavoro e dovrà comunicare il più efficacemente possibile i valori di un’azienda storica che si rinnova. La traduzione in spazio di tali input prende le mosse da alcune suggestioni provenienti dal mondo dell’orologeria: ottenere un impatto massimo con la minima quantità di materiali; rifarsi all’immagine dei segnatempo scheletrati; dare forma a un’idea di movimento perpetuo. Il percorso espositivo, frutto dell’unione fra l’elemento museografico e quello della manifattura attiva, viene curvato sino a divenire una doppia spirale, simbolo assoluto dell’idea di “perpetuo”.
Alle battute finali della Seconda Guerra Mondiale Breslavia ha subito un azzeramento urbano quasi totale. Nel maggio del 1945 un solo palazzo novecentesco era sopravvissuto alle esplosioni, arroccato su un isolotto del fiume Oder.
Rimasto irrisolto nel piano di ricostruzione della città, l’edificio negli ultimi anni ha visto radunare attorno a sé un numero sempre crescente di giovani che lo hanno consacrato come luogo di incontro. Dopo aver acquisito l’edificio superstite, nel 2018 Concordia Design ha incaricato lo studio MVRDV di progettare il recupero e l’ampliamento della struttura, per trasformarla nella nuova sede aziendale.
Il progetto di MVRDV recupera le membra del simbolo urbano attraverso innesti e integrazioni distinguibili. Il prospetto novecentesco sopravvive come una specie di lacerto, modificato dalle rinnovate esigenze funzionali. La facciata storica è contrapposta all’aggiunta contemporanea che si fa tripartita e definisce prospetti asciutti che recuperano i ritmi e le altezze dei paramenti murari preesistenti, per poi tradirli sul margine più estremo, dove il corpo architettonico si smaterializza grazie a un’enorme vetrata che racchiude la tripla altezza dell’ingresso. Innesto e preesistenza lavorano in sinergia anche se il primo, dal punto di vista formale, è molto asciutto e sembra essere sostenuto – nella sua espressione spaziale – più dal suo contenuto e contesto che dalle qualità intrinseche della sua morfologia generale, sostanzialmente “informale”.
A Gwanggyo, Corea del Sud, è stato inaugurato il sesto department store della catena Galleria, fondata nel 1970 e ancora oggi una delle più importanti del Paese. Il progetto è stato affidato allo studio OMA, che vanta una lunga esperienza in fatto di edifici commerciali che potremmo definire “non convenzionali”. Il concept dell’edificio è particolarmente rivelatore: da una parte un grande volume stereometrico, pieno, opaco, all’interno del quale vengono ospitate le funzioni commerciali dell’edificio; dall’altra un nastro che, avviluppandosi sull’edificio, lo scava, dando vita a una successione di vuoti che costituiscono il tratto innovativo del progetto. A prima vista l’edificio può essere ricondotto a un grande cubo che si sviluppa su dieci livelli; un oggetto introverso, un monolite che delimita chiaramente un interno e un esterno. Questa rigidezza è rotta dal percorso pubblico che connette il piano terra con l’ultimo senza soluzione di continuità, grazie a una successione di spazi dove trovano posto attività culturali, intese dai progettisti come una “possibile fuga dalla prevedibilità dello shopping”. In questo modo la galleria si apre alla città e viceversa, l’interno e l’esterno vengono messi in relazione, offrendo tanto al passante che all’utente degli scorci inaspettati. Nelle intenzioni dei progettisti il nuovo edificio avrebbe dovuto costituire una sintesi tra il contesto urbano, caratterizzato da una rigida maglia di grandi assi viari e da alte torri residenziali, e il grande parco adiacente. Naturale e artificiale, pieno e vuoto, pietra e vetro si combinano in un oggetto speciale che rompe la monotonia e diventa “un punto di gravità naturale per la vita pubblica a Gwanggyo”.
All’interno di un ampio programma di rivitalizzazione urbana, questo edificio assume un valore baricentrico, un nodo di socialità di grande rilevanza composto da un mercato coperto, una biblioteca pubblica, servizi per l’infanzia e una zona adibita a bar/ristorante. Tra gli obiettivi la realizzazione di un’architettura accogliente, attraente e facilmente leggibile, in grado di trasformare Darling Harbour in polo attrattivo a scala urbana. In accordo con le premesse concorsuali, la progettazione ha dato come risultato un’architettura che lavora in maniera indissolubile con il contesto, curando una serie di dettagli che denotano attenzione allo spazio pubblico. La hall è uno spazio i cui confini si smaterializzano attraverso la facciata in vetro e le cui numerose porte esortano al transito nel mercato. La gradinata di accesso al mezzanino del mercato si libera della sua connotazione puramente funzionale, diventando una dilatazione del suolo su cui sostare e godere della vista sulla piazza e sul boulevard. Un nastro di legno avvolge in una spirale l’edificio vetrato, creando un involucro che segna visivamente la diversità e la velocità dei flussi urbani e naturali. La pianta centrale permette di ottenere uno spazio libero, ventilato e luminoso nel quale, a ogni livello, si ritrova la stessa permeabilità che si riscontra nell’attacco a terra. Nonostante la singolarità di The Exchange, Kuma non tradisce l’opposizione alla logica delle morfologie autoreferenziali e basa la sua proposta su un edificio che recupera la scala umana sia in termini fisici che relazionali, come in molte sue architetture dove l’esperienza dell’utente è protagonista del progetto.
Il museo d’arte progettato da Tadao Ando a Foshan è stato promosso da un illuminato mecenate in omaggio alla sua città natale, con la volontà di realizzare un polo di conoscenza della cultura autoctona e di diffusione dell’arte nella comunità.
La ricerca di una spazialità aulica in un sito confinante con un trafficato quartiere commerciale e un parco pubblico ha generato la necessità di mitigare gli effetti del rumoroso contesto senza negare la relazione con il tessuto circostante.
La simbologia cinese ha guidato la composizione formale del museo: quattro cilindri sovrapposti si espandono verso l’alto aggettando sui piani sottostanti in modo eccentrico. A nord-est, un grande parallelepipedo interseca l’edificio principale bilanciandone il dominante carattere curvo con una controparte rettilinea. All’interno, ambienti circolari si intersecano con quelli caratterizzati dal perimetro squadrato in un’interazione che genera un conflitto dinamico. Al centro del volume principale un grande vuoto costituisce il nucleo attorno al quale sono imperniati i diversi piani della galleria . Ancora una volta una cifra quasi immutabile rende le architetture di Ando iconiche e riconoscibili per l’uso ascetico dei materiali e per la composizione di geometrie elementari relazionate per contrasto. Una potenziale autoreferenzialità stilistica salvaguarda valori e caratteri del sito in un progetto che è portatore di un messaggio sul significato di un’architettura capace di traslare l’attenzione dall’oggetto alle sue relazioni.
Il volume costruito, ma anche lo spazio vuoto progettato al suo interno, le cui qualità discendono inevitabilmente e in larga misura dal primo, concorrono in maniera complementare alla definizione dell’immagine di questo edificio, tra le ultime realizzazioni di Ateliers Jean Nouvel. Le soluzioni volumetriche e figurative adottate determinano una doppia valenza percettiva; una sorta di duplice parvenza che genera piani di lettura paralleli, fuori e dentro l’edificio, attraverso il solo utilizzo del colore. Difatti la costruzione si realizza tramite la ripetizione quasi ossessiva di elementi di facciata standardizzati, ma la diversa colorazione che questi assumono nelle facciate interne rispetto a quelle esterne è, da sola, in grado di creare un’impressione totalmente diversa tra il fuori, che punta alla relazione con il contesto urbano, e il dentro, scrigno cavo più appartato e accogliente. Tra i principali obiettivi del progetto c’era quello di realizzare, tra le due strade che delimitano l’edificio, un elemento di connessione dalla valenza urbana; una passeggiata commerciale imprevedibile, un vero e proprio passage ispirato alle gallerie parigine di fine Ottocento. Sin dalla sua recente inaugurazione “The Roof” è tra i luoghi più fotografati di Shanghai, visitato non solo dagli impiegati degli uffici e dai clienti degli esercizi commerciali, ma anche da schiere di passanti incuriositi e smaniosi di immergersi in un’ambientazione fotogenica e accattivante.
È “torre” la definizione che meglio si addice al fulcro del campus LUMA Arles, un centro di risorse artistiche che in 56 metri di altezza e 15.000 metri quadrati di superficie racchiude spazi espositivi, archivi, sale per laboratori e seminari. L’epidermide metallica della struttura, che si delinea come un agglomerato irregolare di superfici riflettenti, ne suggerisce in maniera piuttosto esplicita la paternità. L’oggetto scultoreo di F.O.Gehry si inserisce, insieme a degli edifici lineari utilizzati un tempo per assemblare e riparare locomotive, in un pattern vegetale tipico della regione mediterranea. Un tamburo circolare, sviluppato su tre livelli completamente vetrati, funge da podio della torre e invita i visitatori a entrare.
A partire dal centro della base porosa, l’edificio si delinea come aggregato di quattro torri più piccole, interconnesse tra loro e attaccate a una spina dorsale in cemento, che contiene gli ascensori e le scale. Il perno del campus raggiunge l’apice della sua forza espressiva nel trattamento superficiale di questa porzione superiore: una massa frastagliata e apparentemente informe di pannelli in acciaio inossidabile, ciascuno dotato di un’inclinazione ben precisa. Riguardo alla geometria controversa della torre, è molto probabile che si tratti del risultato di un intento comune – tra committente e autore – di erigere un vero e proprio “edificio pittorico”, coerente con la propria funzione: un’opera d’arte tridimensionale che riflette i colori dell’intorno e le sfumature del cielo. L’edificio richiama formalmente ciò che contiene e sembra plasmato con esattezza per contenerlo.
Uno spazio dinamico e inclusivo come metafora dello sport
Diventare un’icona rappresentativa dei Giochi Olimpici e Paralimpici è l’intento con cui nasce il museo realizzato in Colorado su progetto del gruppo Diller Scofidio + Renfro. Il complesso museale può essere letto come una composizione di due sistemi: quello costituito dagli spazi a fruizione pubblica (la piazza, il cafè, il ponte pedonale), che ben si legano al contesto urbano e naturale preesistente, e l’edificio del museo, protagonista assoluto della composizione, oggetto compiuto in se stesso e totalmente riconoscibile. La firma del celebre studio statunitense si legge già a colpo d’occhio nella superficie sfaccettata che costituisce l’involucro in alluminio dell’edificio museale: i volumi che lo compongono sono avvolti da una membrana rigida che ne accompagna andamenti e flessi, enfatizzandone la sinuosità attraverso pieghe e ombreggiature. Il tema del movimento in quanto cambiamento e trasformazione attraverso lo spazio e il tempo, insieme a quello della riconoscibilità materica, sembra essere il filo rosso che accomuna le realizzazioni dello studio statunitense e ben si adatta al progetto di un museo celebrativo dello sport e degli atleti olimpici e paralimpici.
ARGOMENTI
– DISAMBIENTAMENTI. Prove di incisione di Carmelo Baglivo – Pag. 112
– L’opera di Myron Goldsmith, architetto-ingegnere del XX secolo – Pag. 116
– Silvano Stucchi, l’ingegnere, professore universitario con la passione per l’acquerello – Pag. 122
NOTIZIE – Pag. 124
LIBRI – Pag. 126
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