Non più rifugio notturno dopo una giornata frenetica passata fuori ma luogo frequentato 24 ore su 24, non più spazio dedicato alla sola funzione domestica ma stazione multiuso per le attività molteplici dei suoi abitanti, la casa, a causa della pandemia, è tornata al centro delle nostre vite, scardinando dinamiche e comportamenti consolidati e sollecitando una serie di interrogativi, oggetto di un pensiero critico che interessa oltre a sociologici, antropologi, psicologici, anche coloro che si occupano di progettarne gli spazi. Partendo da questa premessa, “Abitare lo spazio domestico” intende proporre una riflessione sul più ampio significato che la casa può rivestire oggi e nel prossimo futuro con una particolare attenzione non solo per la sua struttura organizzativa e i valori linguistici che ne conseguono, ma soprattutto per le sue caratteristiche spaziali in relazione alla sfera emotiva e ai differenti stili di vita dei suoi abitanti. Per questa ragione si è ritenuto utile e stimolante ripartire dal passato recente, da quel periodo d’oro della ricerca sullo spazio domestico che in Italia ha dato vita a importanti sperimentazioni, il cui contributo forse proprio per l’unicità dei risultati è stato poi accantonato, soppiantato da altre questioni più urgenti legate allo sviluppo urbano, alle infrastrutture, ai servizi e spazi pubblici. Per cercare di fare il punto e riprendere le fila di un discorso interrotto, la selezione delle opere presentate in questo numero, seguita da un saggio dedicato ad alcuni esempi contemporanei di progetto dello spazio domestico, è dedicata a 10 abitazioni progettate tra il 1930 e la fine degli anni Settanta da noti esponenti dell’architettura. Tra questi Giuseppe Terragni, Gio Ponti, Luigi Cosenza, Luigi Moretti, Marco Zanuso, Giuseppe Perugini, Enrico Mandolesi, Gae Aulenti, Gianni Pettena, hanno offerto con i loro studi e progetti risposte diverse alle istanze di rinnovamento dello spazio domestico poste dalla società dell’epoca. Nell’insieme queste abitazioni costituiscono dei modelli per la loro non replicabilità e unicità e ciascuna di esse, a nostro avviso, è portatrice di valori spaziali e temi di ricerca ancora attuali, nonostante le particolari circostanze localizzative e la distanza temporale. La prima caratteristica comune a queste case è lo stretto rapporto tra committente e progettista, due figure chiave che in alcuni casi coincidono; una seconda è quella di proporre soluzioni abitative non convenzionali sia per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi interni che le relazioni con l’ambiente e i paesaggi di appartenenza; tutte e dieci le case – 7 unifamiliari, di cui quattro per vacanze, e tre appartamenti all’interno di fabbricati urbani – hanno poi in comune una peculiarità fondamentale: sperimentano nuove forme di linguaggio, individuano spazialità interne fatte su misura per i loro abitanti e committenti, stabiliscono un forte legame tra l’ideatore dello spazio e chi vi abiterà, molto spesso esaudendo il sogno di una “casa ideale”. Gli aspetti di originalità e di interesse, le caratteristiche progettuali e spaziali salienti di ciascuna delle 10 case sono stati commentati da autori diversi con l’intenzione di restituire un bagaglio di esperienze molteplici e di questioni aperte sul tema dello spazio domestico e con la finalità di interrogarsi in modo più ampio sulla qualità e le forme dell’abitare.
ABITARE LO SPAZIO DOMESTICO – Pag. 2
Editoriale di Domizia Mandolesi
di Antonino Saggio
Villa Bianca insisteva su un lotto ampio circa 100 metri di larghezza lungo la strada per 63 metri di profondità, in una lottizzazione extraurbana a Corso Garibaldi 87 nel comune di Seveso. La parte a nord dell’area è stata frazionata e ceduta e oggi la casa insiste su un lotto quasi quadrato, di 60 x 63 metri circa, passando da un lotto originario aperto angolarmente sulla via Sprelunga a un lotto intercluso e trasformando così la percezione, le proporzioni e la spazialità della casa. La collocazione completamente asimmetrica, molto vicina alla strada principale, sbilanciata nell’angolo sud-est nasce da un insieme di caratteristiche tra le quali la visibilità dell’edificio dalla strada. La struttura con muri portanti in cemento armato fa acquisire alla costruzione la sua sostanza di volume solido che sarebbe stata inficiata da un tamponamento dell’ossatura a scheletro. La villa era sollevata su un podio di circa un metro e venti sopra terra. Questa scelta da un lato innalza le viste, dall’altro consente l’inserimento di finestre di aerazione al piano seminterrato dove si trovano lavanderia, garage e alloggio di servizio. L’accesso alla casa, al piano rialzato, avviene attraverso una scala/rampa sul retro. Nella zona servente, disposta al centro, si ha, oltre l’ingresso, la scala che distribuisce l’interrato e il primo piano. Al lato nord-est si sviluppa l’ampia zona giorno con lo studio che si spinge verso l’esterno e, nella zona sud-est, la cucina, una stanza di servizio e il tinello. Al primo piano la scala distribuisce a sinistra, nella zona sud-est, due camere da letto e a destra un’ampia camera da letto con studio o altra camera annessa. Entrambe accedono a una terrazza/patio. Da qui una nuova scala porta al solarium, dove svettano le famose pensiline che giocano non solo il celeberrimo effetto dinamico, ma anche la funzione di frangisole e frangivento.
di Enrico Sicignano
Nel 1936 il costruttore Vincenzo Savarese affida a Luigi Cosenza l’importante e delicato incarico di progettare la propria casa nel neonato ed elegante quartiere SPEME in via Scipione Capece sulla collina di Posillipo. La Villa Savarese è all’epoca una casa unifamiliare su quattro livelli collegati tra loro da una scala elicoidale che arriva sul solarium e il cui torrino è un involucro in vetro-mattoni. I due livelli residenziali fuori terra (zona giorno e zona notte) sono collegati da una rampa che evoca la lecorbusieriana “promenade architecturale” di Villa Savoye. Lungo la strada la villa poggia su un alto basamento artificiale in pietra calcarea nel quale è ricavato l’ingresso pedonale e a fianco l’ingresso all’autorimessa, ai locali tecnici e impiantistici. Il livello successivo è una sorta di loggiato scandito da esili pilastrini bianchi in conglomerato cementizio armato, chiuso nel versante est da una teoria di finestre. I locali retrostanti sono la palestra e la sala giochi. La soluzione del piano artificiale di posa in opera è necessaria per poter partire da un piano di campagna ben definito, compensando il ripido pendio naturale dei luoghi. La felice scelta di differenziare per materiali e per tipologie costruttive i due livelli ne riduce otticamente l’altezza facendo apparire l’insieme più articolato e leggero. Risulta che nel corso degli ultimi decenni la Villa Savarese abbia subito diverse trasformazioni interne e frazionamenti tanto da essere oggi composta da diverse unità pur all’interno dello stesso involucro edilizio, pressoché identico a quello originario così come concepito da Luigi Cosenza. L’interesse di Luigi Cosenza per l’architettura spontanea del Mediterraneo avviene secondo la logica della re-interpretazione colta e non della passiva riproposizione emulativa, il che significa coniugare con sapienza il Mediterraneo come genius loci con la cultura mitteleuropea, l’architettura aulica e quella dei grandi protagonisti suoi contemporanei.
di Eleonora Carrano
Commissionata nel 1955 dal giornalista Francesco Malgieri per la figlia Luciana Pignatelli d’Aragona Cortez, la Saracena è parte di un “trittico” con le limitrofe ville la Califfa e la Moresca (1967-1981). Il tema ricorrente nelle tre ville di Santa Marinella è quello della casa come rifugio, il cui obiettivo prioritario è realizzare uno spazio autonomo e avere il massimo isolamento dall’esterno. La villa, orientata in direzione nord-sud, segue la forma del lotto irregolare ed esteso in lunghezza, chiuso tra il fronte strada e l’affaccio diretto sul mare. Alla sinistra dell’ingresso principale è disposto il garage, dal quale si accede alla proprietà da un varco secondario. La casa è concepita e articolata come un lungo percorso proteso verso il mare, ideata come un “attraversamento” fluido e continuo a partire dalla soglia del lotto. Due assi longitudinali orientano in pianta le funzioni: un primo che dall’ingresso all’area termina nell’atrio e un secondo asse che dal vestibolo orienta la galleria in direzione della terrazza protesa sul mare. Si può riassumere la pianta come suddivisa in tre nuclei funzionali pensati indipendentemente, ma in comunicazione tra loro spazialmente. Il primo nucleo è sul fronte strada, costituito dal vestibolo che disimpegna le due zone notte. Il secondo nucleo è quello della galleria a rampa discendente con copertura piana e il terzo nucleo è composto dalle zone pranzo e soggiorno, in corrispondenza del quale l’altezza dello spazio interno raddoppia. Il sistema costruttivo adottato è a pilastri. Non si può parlare de la Saracena senza ricordare il restauro eseguito dall’architetto Paolo Verdeschi, che ha riportato la casa al suo stato originale. L’aspetto inedito del restauro riguarda il ritrovamento di inaspettate colorazioni rosa sotto gli strati di tinte delle superfici interne e esterne. Ritrovamento che scardina le certezze riguardo le rare concessioni fatte da Moretti al colore, limitatamente agli arredi che lui stesso aveva disegnato e curato per la Saracena.
di Alessandra De Cesaris
La casa in via Dezza rappresenta il manifesto dell’idea di abitare di Ponti, dove metterà a sistema le riflessioni e le invenzioni maturate e sperimentate negli anni precedenti. Qui realizza la sua versione di pianta libera, quello spazio per vivere flessibile e aperto invocato fin dall’inizio della sua attività. La casa è dunque un unico grande ambiente in cui le pareti modernfold rendono possibile aggregare più spazi o suddividerne altri. La flessibilità dell’alloggio è in primis una flessibilità visuale, consente di percepire la dimensione totale dell’appartamento, consente l’attraversamento degli sguardi, della luce, dell’aria. Nella casa scompare la tradizionale divisione zona-notte/zona-giorno e sul fronte principale, esposto a sud, si susseguono la camera da letto matrimoniale, il soggiorno, il pranzo e le camere dei figli; ambienti che comunicano con l’esterno attraverso la cosiddetta finestra arredata, una parete interamente vetrata che ingloba nel suo disegno una serie di arredi. Al raggiungimento del comfort contribuiscono in modo determinante gli arredi: i mobili auto-illuminanti, le pareti cruscotto, gli armadi e le pareti modernfold: soluzioni leggere, autentiche invenzioni del poliedrico architetto che ha saputo dialogare con le aziende e i saperi artigianali e ha saputo includere nel disegno degli arredi e del mobilio la memoria della tradizione. Sul fronte principale anche la facciata è “trasformabile” e adattabile ai desideri dei singoli condomini che avrebbero potuto scegliere il disegno della finestra arredata e il colore dell’intonaco conferendo così all’intero prospetto una dimensione spontanea. Sorprende invece in questa casa l’assenza di un tetto giardino e la presenza di un balcone di così modeste dimensioni. Le lunghe balconate a sbalzo, racchiuse da una cornice a tutta altezza, hanno infatti il ruolo principale di definire il prospetto ma non riescono a configurarsi come uno spazio vivibile all’aperto.
di Ruggero Lenci
Le quattro case studio per artisti realizzate nel 1960 in via Mariano Fortuny a Roma affacciano con ampie vetrate verso l’ansa del Tevere guardando ad occidente, mentre a oriente si ancorano alla rupe tufacea di Villa Strohl Fern. L’uso della copertura a falde “pieghettata” costituisce un elemento di originalità non solo all’esterno, per il suo equilibrato inserimento nel paesaggio, ma anche all’interno, per la singolare connotazione degli spazi di soggiorno. L’organismo edilizio costituisce un intervento di quattro alloggi di cui due duplex e due simplex, con il corpo a nord e quello centrale contenenti i duplex, e quello a sud un simplex al livello d’ingresso e uno al piano superiore. L’accesso al piano d’ingresso ha luogo da rampe di scale esterne che superano un dislivello significativo. Le zone giorno dei duplex sono state situate al livello superiore e ciò ha richiesto che l’ingresso avvenisse dalle zone notte per poi salire a quelle giorno. Nel primo alloggio a sinistra dell’androne è presente una parete inclinata superata la quale si trovano la camera da letto e il bagno, quindi, superiormente, uno spazio-ponte vetrato sui due lati lunghi. Questo volume, centrale rispetto agli altri due dell’organismo edilizio, non sbalza sul fronte ovest come invece fanno quelli sulle testate, giocando un ruolo di collegamento. Il successivo alloggio ha accesso dalla seconda porta dell’androne e apre su un lungo corridoio che si snoda parallelamente al muro contro terra, ove si incontra la scala a chiocciola che sale alla zona giorno, quindi gli armadi a muro e la stanza da letto con il bagno. Gli ultimi due alloggi sono i simplex del terzo e quarto ingresso. Nel tempo sono state apportate all’edificio modifiche sostanziali che hanno coinvolto il volume a nord del quale sono state sostituite le vetrate non rispettando la suddivisione e il disegno originario. Nel volume a sud sono comparsi dei bow-windows che aumentano l’illuminazione degli spazi interni. L’edificio è stato anche dotato di un ascensore esterno.
di Massimo Zammerini
Molto diverse tra loro, le due case sono accomunate da un particolare modo di concepire l’abitazione e propongono un legame con la natura quasi primordiale. Le case gemelle per vacanze nella baia di Arzachena in Sardegna e la casa Press a Lydemburg in Sud Africa raccontano una comunanza con le atmosfere determinate dai paesaggi nei quali sorgono, hanno un unico piano e sono ancorate saldamente al terreno determinando un attacco viscerale al suolo. Le case gemelle sul mare hanno una pianta quadrata con agli angoli quattro volumi autonomi in pietra, tre camere da letto e una zona pranzo dotati di aperture angolari scorrevoli. Il vuoto a croce greca che risulta da questa composizione è in parte occluso dalla cucina, comunicante con il pranzo, dal forno e dal bagno accessibili solo dall’esterno. Lo spazio a cielo aperto è destinato alla vita comune, con il tavolo riparato dal sole mediante una copertura composta da travature lignee e cannucce filtranti. L’attenzione ai medesimi temi la ritroviamo nella grande casa realizzata a Lydenburg. Una serie di setti paralleli in pietra determinano una pianta molto allungata, al centro sono collocati gli spazi di soggiorno e da questi partono sui due lati opposti una serie di “diapason” che contengono gli altri ambienti interni e poi spazi a cielo aperto che ospitano giardini, una vasca per i pesci e una piscina. All’interno di questi canali visivi puntati verso le colline del deserto la vegetazione spontanea penetra in ogni direzione fino alla copertura. Gli ambienti presentano pareti in pietra naturale, pavimenti in doghe di legno e un disegno dei controsoffitti in assicelle di legno. Gli elementi maggiormente caratterizzanti questa grande villa sono i lunghi canyon in pietra che sono alternatamente abitati o a giardino e che si protendono letteralmente nelle direzioni lontane dal nucleo centrale. Il fronte a valle presenta nella parte centrale una teoria di contrafforti in pietra che determinano un portico ombreggiato. Vista da lontano la casa appare perfettamente integrata nel paesaggio ondulato delle colline.
di Raynaldo Perugini
I principi compositivi che si trovano all’origine della Casa Albero di Fregene, realizzata con la collaborazione di Uga de Plaisant e Raynaldo Perugini, si possono sintetizzare in due parole: sperimentazione e libertà. Appare evidente il carattere sperimentale di molte delle soluzioni applicate, così come è palese la volontà di lasciare l’interno come uno spazio indifferenziato, ampliabile nel tempo e senza soluzione di continuità. La casa è realmente concepita come una delle possibili aggregazioni di una serie di elementi modulari in cemento armato e ferro da costruirsi fuori opera e quindi da “montare” imbullonandoli tra di loro. Nel caso specifico però il particolare sistema costruttivo adottato, costituito da travi, pilastri e piastre appese e appoggiate, pur concepito per essere prodotto industrialmente, è stato realizzato gettandolo in opera. Va osservato comunque che una scelta progettuale come quella adottata svincola le pareti da qualsiasi funzione portante. Un fattore importante che va considerato riguardo alla scelta di costruire le pareti usando una varietà di elementi modulari da aggregare liberamente, suscettibili di sostituire gli arredi tradizionali, è che viene liberato lo spazio interno dalla presenza dei mobili tradizionalmente più ingombranti quali ad esempio l’armadio o la libreria. Per le parti vetrate, si è operata la scelta di affiancare a dei moduli-finestra delle composizioni in ferro colorato rosso di cubi concavi e convessi. Esistono tutta una serie di proposte progettuali che anticipano l’idea finale che doveva poi dare forma alla Casa Albero. Prima fra tutte quella presentata nel 1967 al primo concorso InArch-Finsider per delle strutture in acciaio destinate all’edilizia abitativa che ha ricevuto il primo premio. Si trattava di una proposta che prevedeva una serie di moduli-telai aggregabili liberamente in maniera da creare abitazioni estendibili potenzialmente anche su più livelli.
di Nina Artioli e Matteo Costanzo
Gae Aulenti si trasferisce nel 1974 in quella che diventerà la sua casa-studio fino alla sua scomparsa nel 2012. Insieme all’appartamento riesce ad acquisire la piccola palazzina a due piani affacciata su piazza San Marco, che trasformerà nel suo studio. Mentre la casa ha soffitti altissimi e viene riorganizzata con l’aggiunta di un secondo livello aperto su una doppia altezza, lo studio su Piazza San Marco viene completamente svuotato e rimodulato attraverso un sistema di solai a livelli sfalsati. I due spazi sono posti in continuità l’uno con l’altro perché collegati da una porta passante e attraversati da una sequenza di scale e passerelle metalliche di colore arancione. La casa si configura come un volume vuoto, rettangolare, un grande spazio proiettato sulla città attraverso grandi finestre verticali. Lungo la parete opposta, il secondo livello a ballatoio si affaccia sulla doppia altezza e sotto di esso una sequenza di ambienti più intimi e funzionali accoglie gli spazi di servizio. Il grande spazio centrale definisce la dimensione pubblica della casa, il pavimento scuro in lavagna e le pareti bianche fanno da sfondo al sistema di passerelle di tubolari metallici e grigliato keller. Lunghe librerie bianche costituiscono il minimo sistema divisorio e stabiliscono l’attraversamento dello spazio. A completare l’immagine complessiva una ricca combinazione di arredi, lampade, opere d’arte, prototipi di design. Nella parte bassa del ballatoio un muro funzionale divide lo spazio del grande salotto dalla cucina, mentre sul livello superiore si organizza la vita privata di Gae, la sua camera da letto, servita da un bagno e una cabina armadio. La porta che conduce allo studio è posta sul lato opposto all’ingresso principale e si connette con la sala riunioni. L’accesso principale dello studio avviene direttamente da Piazza San Marco. Al suo interno le scale arancioni e i diversi solai sfalsati tra loro animano l’involucro completamente svuotato, portando la luce naturale a tutti i livelli e creando un unico spazio abitato su diverse quote.
di Gianni Pettena
Questo piccolo rudere era quasi completamente nascosto dai rovi tanto che lo scoprii per caso e per caso nel 1975 lo comprai. Coinvolto nell’avventura della ricostruzione, andavo spesso a controllare, e spesso “marcando” inconsapevolmente il territorio, proprio come un qualsiasi animale. Ho cercato, in questo luogo, di farmi spazio senza disturbare, e rallentare il ritmo, guardare, ascoltare, imparare dalla natura, mi ha permesso piano piano di fare posto anche a me, senza distruggere nulla. Si potrebbe parlare, più che di un’architettura minimale, di un’architettura vissuta, imparata, in cui il contesto comandava e insegnava. Come un diario che utilizza il linguaggio visivo, la casa si è continuamente modificata, mantiene la memoria delle origini e mi sembra ora aver assunto un aspetto più o meno definitivo. La casa, di pietra, di vetro e di legno, materiali quasi interamente ricavati dal contesto, è un concatenarsi di spazi aperti e pochi spazi chiusi, una co-costruzione tra uomo e natura, che lascia entrare la vegetazione: quasi un’utopia messa in pratica che ha acquistato anche una sua valenza architettonica quanto più le istanze ambientali hanno acquisito centralità. Nel corso degli anni si sono aggiunti contributi di amici come Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Nigel Coates, Lapo Binazzi, Ugo Marano che hanno contribuito a rendere questo luogo così particolare. Ettore Sottsass ha regalato a me e alla casa il suo ultimo lavoro, una parete e un caminetto; la parete accanto è disegnata da Alessandro Mendini con un suo mosaico al centro; due tavoli, uno all’interno e uno all’esterno, sono di Ugo Marano, che ha arricchito questi oggetti-mobili con mosaici e ceramiche. Andrea Branzi ha disegnato una banderuola sul tetto, Lapo Binazzi un attaccapanni, Nigel Coates un tavolo e Marco Pace un bagno. Più che un progetto curato da me, io volevo aggiungere alla casa un ulteriore “sapore” attraverso l’intervento di amici, di compagni di strada che mostrassero di aver compreso il significato di abitare in quel luogo.
SPERIMEMTAZIONI SULLA CASA CONTEMPORANEA. INTERNI IBRIDI. SPAZI DI TRANSIZIONE – Pag. 92
Luca Galofaro
ARGOMENTI
– Abitare in Cina. La politica della città e della casa – Pag. 106
– Il valore del vuoto nella casa mediorientale – Pag. 115
– Carlo Aymonino. Progetto, città e politica – Pag. 118
NOTIZIE – Pag. 122
LIBRI – Pag. 126
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