Alle soglie di un nuovo decennio e nel pieno di una pandemia, che da un lato sta dando una spinta decisiva al potenziamento delle nuove tecnologie informatiche nello svolgimento delle numerose attività quotidiane, dall’altro ci sta costringendo a un profondo ripensamento di comportamenti e stili di vita, il tema del costruire sul costruito, dell’adeguamento del patrimonio esistente alle nuove esigenze proposto in questo numero, appare non solo pertinente ma anche di grande interesse sotto il profilo disciplinare e culturale. Negli ultimi anni, il lavoro progettuale di interpretazione e riscrittura su manufatti esistenti costituisce per un gruppo abbastanza numeroso di architetti operanti nel panorama dell’architettura italiana l’attività prevalente, un’espressione tipica e un luogo di ricerca forse più impegnativo ma anche molto stimolante. Un luogo di ricerca importante per tutti i progettisti che svolgono il proprio lavoro secondo un’organizzazione ancora di tipo artigianale e un’attitudine progettuale che considera come risorsa per l’intero processo creativo la complessità e i maggiori vincoli che spesso gli interventi sull’esistente comportano rispetto a un progetto ex novo. Da tali premesse è nata la volontà di indagare i diversi campi di azione di questo modo di lavorare, di capirne strategie e linguaggi, di scoprirne le molteplici e variegate declinazioni espressive. A partire dagli interventi selezionati in questo numero e non solo, appare evidente l’ampia casistica di situazioni: restauro, completamento, riuso di manufatti esistenti, estensioni e nuovi innesti, riferite sia a piccole porzioni di tessuto urbano consolidato che a manufatti di ogni tipo. A questi si aggiungono interventi di integrazione di infrastrutture esistenti, come il restyling della stazione della metropolitana di Scampia, un buon esempio di come un manufatto considerato senza speranze, attraverso creatività e ricerca paziente, possa essere temporaneamente restituito a nuova vita senza essere demolito. Ma le sfide a cui l’architettura è chiamata nella società contemporanea non si esauriscono nelle numerose opportunità e nei progetti fin qui citati. Molte altre questioni sono in campo come quella delicatissima della manutenzione e del restauro di infrastrutture di grande pregio architettonico come il Ponte sul Basento di Sergio Musmeci (C. Andriani) o quella, forse poco nota ma non meno importante, dell’adeguamento delle strutture carcerarie (P. Posocco) a sistemi di detenzione più umani, basati sul principio del recupero e non solo della punizione. Per finire con le importanti riflessioni di carattere più specificatamente disciplinare sul ruolo dell’architetto come traduttore (F. Irace) il quale, nel prendersi cura dell’opera, si fa carico del difficile compito di tramandare il passato senza rinunciare alla sua vitalità nella contemporaneità.
LA CURA COME TEMA PER L’INNOVAZIONE – Pag. 10
Fulvio Irace
RIMOZIONE/CONSERVAZIONE: IL BIPOLARISMO DEL PATRIMONIO INFRASTRUTTURALE DEL SECONDO NOVECENTO – Pag. 16
Carmen Andriani
RIABILITARE SPAZI PER RIABILITARE PERSONE. PROGETTI DI (MICRO) RIQUALIFICAZIONE PER LE CARCERI ITALIANE – Pag. 26
Pisana Posocco
Un anno fa la stazione della metropolitana di Scampia si presentava come uno dei tanti ruderi incompiuti del paesaggio italiano. L’occasione di intervenire attraverso un processo di sintesi che accogliesse arte, design, musica, realizzando l’ultima fermata della “metropolitana museo“ di Napoli, si è rivelata da subito una sfida stimolante. Per ottimizzare le risorse disponibili gli interventi sono partiti dalla facciata principale che si è adornata di un secondo volto di aste metalliche dorate dall’andamento vagamente irregolare. Lo spazio interno è stato completato con pannelli argentati e una trama traforata ha trasformato la struttura preesistente in una stazione dove l’ingresso è una grande piazza coperta, con un porticato che trasmette suoni e luce al passare delle persone. Il disegno, tra interno ed esterno, conforma un percorso caratterizzato da una sequenza di alberi metallici che accompagna il flusso dei viaggiatori verso la banchina dei treni, fino a uscire con una “pala” verticale che punteggia la facciata sud rendendo visibile dal piano dei treni l’ingresso alla nuova stazione.
Il recente ampliamento della Circonvallazione Bressanone-Varna, opera tra infrastruttura e paesaggio, è composto da una serie di strade interconnesse e prevalentemente sotterranee volte a ridurre il traffico e a dar vita a un percorso alternativo al margine dei due centri abitati. In primo luogo, gli architetti hanno voluto ridurre al minimo l’impatto ambientale degli elementi fuori terra, che dovevano esprimere una qualità architettonica oltre che tecnica. In secondo luogo, questi elementi e quelli sotterranei sono stati concepiti con un approccio omogeneo e consequenziale e sono stati progettati adeguandosi all’orografia e alle peculiarità del territorio circostante. Come nuove entrate, i portali del tratto di svincolo centrale sono stati pensati come figure espressive le cui teste sollevate emergono dalle reti nascoste e invisibili che fungono da mediatrici tra le diverse velocità e stratificazioni del contesto urbano.
Il sito di progetto è uno spazio interamente vincolato, costituito dai due palazzi storici e da un parco nato dalla lacuna di un terzo palazzo. La sfida è stata quella del volume zero: in un luogo dove sembrava non ci fosse niente da fare era necessario disegnare gli elementi di uno spazio misurato, in grado di dialogare con l’imponenza dei palazzi storici e di ricucirli insieme. Il progetto trasforma il red carpet del Cinema in un white carpet for all people: un tappeto in pietra bianca monocroma, utilizzata per legare i due palazzi esistenti e recuperare la dimensione del verde, che acquista la maestosità degli edifici limitrofi. La pietra Apricena, bianca, monocroma ed estesa a tutta la superficie della piazza, viene utilizzata per rendere una misura, una dimensione che sia capace di confrontarsi con la grandeur dei palazzi, mentre affida ai dettagli sottili dell’orientamento delle pietre, del loro trattamento superficiale, dei piccoli dislivelli, delle ombre, dei tagli per lo smaltimento delle acque, dei tasselli della fontana invisibile e dei preziosi dettagli e cromie dei corrimano e parapetti di ottone, le parole che permettono di far dialogare il contemporaneo e la storia, creando l’atmosfera sospesa di ciò che nel tempo non muta. Il giardino storico, di cui vengono conservate tutte le alberature secolari, si insinua e si innesta nel disegno della pietra, a tracciare la presenza invisibile del terzo edificio mai costruito sulla piazza.
Il progetto consiste nel recupero di un edificio di inizio Novecento denominato “il Faro”, ormai ridotto a rudere. Situato direttamente su un tratto di spiaggia libera, a pochi metri dalla battigia, il manufatto originale era costituito da una parte basamentale, in muratura di pietra a spacco appoggiata sui due scogli laterali, e la parte in elevazione in muratura portante con copertura in legno e manto in cotto.
La soluzione architettonica adottata propone il mantenimento del manufatto esistente e si pone come obiettivo il rispetto della sua dimensione scultorea, ricercando un rapporto formale e cromatico con il paesaggio, per configurare una nuova immagine di un monolite generato dalla sabbia e dalle rocce su cui è appoggiato.
L’intervento all’interno dello spazio dell’ex-Ansaldo propone una riflessione sul significato e la forma delle nuove istituzioni culturali: in particolare si confronta con un ampio edificio e si relaziona a esso come “opera aperta”, al servizio dei programmi e delle diverse attività, predisposto per ospitare molteplici scenari. L’intervento consiste nel levare, anziché aggiungere: attraverso un lavoro di sottrazione delicato, ha ridotto gli elementi tecnici e impiantistici, le interferenze visive o spaziali, per permettere la lettura più chiara possibile del carattere degli spazi e, con loro, delle attività che simultaneamente vi si svolgeranno. Nella tensione tra i volumi nuovi e gli spazi esistenti, il progetto cerca di produrre opposizione ma anche complementarietà, distanza ma anche dialogo, misura ma anche imprevedibilità.
La Torre Bianca è costruita all’interno di un vuoto urbano, sospesa fra il centro storico di Gagliano del Capo e il sentiero del Ciolo, storico percorso di campagna che sfocia in un meraviglioso fiordo. Molteplici sono state le sfide del progetto, in primo luogo quella di inserire la casa in un contesto urbano, facendola dialogare con gli elementi del paesaggio. La forma architettonica scaturisce dalla dicotomia fra le sollecitazioni del mondo esterno e di quelle “interne” della vita quotidiana. Un corpo a torre alto 12 metri, in asse con la torre campanaria della chiesa di San Rocco, svetta sulla casa svolgendo una doppia funzione: offre da una parte un suggestivo accesso visivo al mare e dall’altra una reminiscenza delle torri di avvistamento di età Normanna, elemento tipico e ricco di fascino del paesaggio costiero del Salento.
La scelta principale del progetto è portare la quasi totalità dello spazio sotto terra, per rispondere al processo produttivo a gravità e per preservare l’ambiente circostante. Dall’esterno, solo il corpo destinato alla ricezione dell’uva e l’edificio storico emergono dalla collina. All’interno gli spazi sono stati creati estraendo massa monolitica.
I diversi volumi, altezze e livelli interni ricordano una miniera da cui si estrae materiale prezioso. Il concept ha portato a creare un’architettura “interiore”, visibile solo dall’interno. La tecnica costruttiva adottata per la cantina è il cemento armato gettato in opera, che simboleggia la massa solida che circonda il vino, come l’argilla blu, una delle peculiarità della stratificazione della collina Masseto e della sua vigna.
Il progetto ha previsto la demolizione della sede storica e l’utilizzo delle nuove superfici come occasione per una riqualificazione generale dell’immagine dell’Istituto, pur non coinvolgendolo direttamente nella riqualificazione edilizia. Il nuovo edificio è pensato come un grande volume allungato che nel lato corto si allaccia alla sede attuale mentre dall’altro si adagia sulla collina, integrandosi nel paesaggio circostante. Gli spazi interni godono di una molteplicità di percorsi che da un lato permette una fruibilità diversificata e dall’altro innesca relazioni visive continue con gli spazi esterni. La facciata del nuovo edificio, pensata come un grande volume orizzontale, è scandita da una serie di elementi frangisole verticali in larice lamellare. Questi si trasformano in parete, celando l’edificio esistente e creando una sorta di filtro in continuità con l’ampliamento.
Le residenze realizzate a integrazione del complesso della Caritas Diocesana di Matera-Irsina si inseriscono in uno scenario particolarmente suggestivo e ricco di storia.
Le sei unità abitative rientrano nell’ambito del progetto denominato “Nazareth”, che nasce dalla volontà di ospitare bisognosi e migranti per un tempo limitato, allo scopo di consentire una continua rotazione d’uso a fini caritatevoli. La struttura ha anche una vocazione turistico/ricettiva con la finalità di promuovere nuove opportunità di lavoro e sostenere il no-profit tramite servizi di accoglienza e opportunità lavorative per i giovani disoccupati. Le residenze sono servite a valle da un ballatoio mentre il fronte opposto è incassato nel taglio del banco calcarenitico del vecchio terrapieno. In questo punto, per evitare il contatto diretto con la roccia umida, sono state ricavate delle corti accessibili esclusivamente dall’interno che garantiscono illuminazione e areazione.
Una sperimentazione di qualità in un aggregato urbano esistente
Il progetto consiste nella ristrutturazione di un edificio esistente mediante il protocollo internazionale Passive House. La sperimentazione di questo protocollo di progettazione su un aggregato urbano dell’edilizia storica è significativa soprattutto per l’Italia, dove ogni città è caratterizzata da questa tipologia. Il progetto riqualifica un edificio degradato, ne azzera i consumi energetici e le emissioni in atmosfera e ne migliora la struttura, rendendolo antisismico. L’edificio ha una struttura mista di legno, acciaio, muratura e cemento armato e un involucro tanto efficiente che è in grado di riscaldarsi con l’utilizzo dei raggi del sole, del calore prodotto dal corpo umano e dagli elettrodomestici. Non è allacciato alla rete del gas ed è dotato del solo impianto di ventilazione meccanica. Non utilizzando fonti energetiche combustibili l’edificio non produce emissioni in atmosfera.
Microutopia nasce da un luogo abbandonato, dismesso, lasciato a una ricchezza impoverita. Microutopia è un po’ quel laboratorio artigianale che era, conservandone la forma; nella sua copertura dentata, nei suoi mattoni pieni che ne tracciano il perimetro, nelle sue due colonne in ghisa che sorreggono quella forza passata ma non dimenticata. Microutopia è così recupero, rinascita, trasformazione, crescita. Microutopia è un pezzo di città, un piccolo villaggio, con strade, viottoli, scalinate, scalette, piazze, giardini e case. Microutopia è il villaggio dell’abitare, del lavoro, del gioco, del rilassarsi, del mostrare, dello sperimentare, dell’incontro. Microutopia è un’architettura non più segnata da confini chiusi, ma da filtri aperti. Un luogo ibrido, un grande laboratorio. Un luogo che non arriva mai a completamento ma è sempre permanente, senza programmi, intercambiabile nelle sue parti.
Il progetto dell’ampliamento del nuovo cimitero di Frascati mira alla valorizzazione del carattere storico, architettonico ed estetico del sito, nel tentativo di inserire il complesso cimiteriale in un sistema paesaggistico integrato con l’ambiente, caratterizzato da terrazzamenti, tipico dei Castelli Romani. Reinterpretando il luogo originario, il progetto si integra con l’ambiente naturale dando origine a una struttura che, percorribile su più livelli, si trasforma in un giardino dove natura e artificio interagiscono fino a sovrapporsi e diluirsi l’una nell’altro. L’ossatura del progetto è una promenade paysagèe che si configura come una sorta di “percorso di pace”, dove la presenza delle sepolture si percepisce appena. La promenade attraversa il cimitero longitudinalmente e trasversalmente mettendo in comunicazione i due giardini tematici – il giardino della memoria con quello della pace –, l’ingresso principale e l’area delle cappelle.
ARGOMENTI
– Claudio Marcello e le sue dighe. “Italian Style” alla scala del paesaggio – Pag. 108
– Orizzontale. Esperimenti, collaborazioni e cantieri per accompagnare i processi di trasformazione della città – Pag. 116
– Biennale di Architettura di Venezia 2021. How will we live together? – Pag.121
NOTIZIE – Pag. 122
LIBRI – Pag. 126
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