Nel 2014, la Corea si aggiudica, con il padiglione “Crow’s Eye View: the Korean Peninsula”, il prestigioso Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla Biennale di Architettura di Venezia curata da Rem Koolhaas. Un riconoscimento importante per la produzione architettonica della nazione asiatica e per l’attenzione che da questo momento riceverà nel dibattito internazionale, sancito da altre mostre e iniziative settoriali che hanno messo in evidenza il valore delle espressioni più recenti dell’architettura in Sud Corea.
In queste esposizioni e in particolare in quella organizzata, nel 2017, presso la Fondazione Pastificio Cerere a Roma, curata da Luca Galofaro e ChoiWon-joon, sono emersi diversi motivi di interesse che, nonostante la distanza geografica e culturale, hanno messo in luce come la Corea del Sud possa costituire un esempio per l’Italia, convincendoci a dedicare questo numero della rivista al lavoro di ricerca e alle opere realizzate da un gruppo di architetti coreani. Uno dei motivi è il valore attribuito all’architettura come volano di crescita sociale, culturale ed economica, ben rappresentato dagli architetti selezionati. Questi professionisti, seppure nella diversità dei linguaggi, promuovono un approccio all’architettura e al progetto urbano differente da quello sotteso al modello dello star system e delle sue icone più recenti.
L’architettura è ritenuta uno strumento politico fondamentale non solo per la crescita del paese, ma anche per definire gli orientamenti di una nazione alla ricerca di una propria posizione culturale all’interno del mondo globalizzato. In questo contesto, sfruttando il periodo di distacco dovuto all’esperienza formativa all’estero e godendo di una maggiore libertà rispetto alla generazione precedente, operano gli architetti di cui presentiamo i lavori. Le loro opere sono caratterizzate da quella sobrietà tipica delle migliori espressioni dell’architettura asiatica e al tempo stesso sono in grado di assorbire complessità, contraddizioni e cambiamenti in atto nella città e nella società coreana contemporanee. Un fattore fondamentale della morfologia urbana dei contesti asiatici come quello della densità viene reinterpretato e trasformato in una forma di linguaggio efficace, originale e mai monotona. Il tema delle densità innesca in ogni intervento un processo di ripensamento delle relazioni tra edificio e spazio urbano, tra interno ed esterno, tra privato e pubblico. Gli elementi e gli spazi di transizione diventano protagonisti di una nuova dimensione architettonica inclusiva e aperta a diversi usi, adatta a suscitare un maggiore coinvolgimento della comunità.
L’ARCHITETTURA COME RINASCITA IDENTITARIA. L’ESEMPIO DELLA COREA DEL SUD – Pag. 6
Luca Galofaro
UN DIALOGO A DISTANZA TRA ROMA E SEOUL – Pag. 12
Luca Galofaro
Nonostante i sette piani fuori terra, l’edificio si distingue non per dimensione ma per l’efficace invenzione spaziale delle sue facciate che trasformano il volume costruito in un soggetto narrativo. Pensate da Yoon Gyoo Jang, fondatore dello studio Unsangdong Architects, come enormi “urban canvas”, i piani inclinati in cemento dell’involucro edilizio comunicano la presenza di un nuovo luogo per l’arte sperimentale in un contesto ad alta densità creativa. Proprio per rendere l’architettura elemento attivo di un tale contesto, la pelle dell’edificio diviene dispositivo di generazione e interazione spaziale. La bidimensionalità espressiva della tela viene deformata concettualmente e fisicamente per tendere verso uno scenario a tre dimensioni. Piegando le pareti dell’involucro si creano vuoti di sezione che il progetto articola in spazi interni ed esterni. La conquista di questi strati multipli nascosti dietro il singolo piano di rivestimento avviene per fasce lineari parallele, secondo una geometria ordinatrice semplice. La sintesi di questo processo è nel concetto di “skinscape” che i progettisti utilizzano per indicare la combinazione della nozione di involucro architettonico con la nozione più ampia di paesaggio.
“Ewha” è una delle più antiche istituzioni per l’istruzione femminile in Corea e una delle più prestigiose in Asia. Il progetto dello studio KYWC Architects interviene sull’edificio principale della sede storica della Scuola fondata alla fine dell’Ottocento e situata nel distretto di Jung, centro storico di Seoul. L’intervento sull’ “Edificio Scranton” prevede la sostituzione di parte dei suoi servizi (magazzini e locali impianti) con un Vision Centre. Nel dare forma agli spazi per le nuove attività previste, i progettisti disegnano un’estensione della scuola dalla forma a C, con ali di diversa lunghezza che si attaccano alla stecca dell’edificio esistente, definendo così una corte interna. Il Vision Centre, con una superficie di circa 10.000 mq, occupa un sito dalla forma articolata e dalle quote irregolari. Il basamento direttamente al di sotto della corte, oltre ad un secondo livello interrato tecnico e di servizio, ospita un’aula assemblee e una sala proiezioni audiovisive, che insieme all’ampia caffetteria al piano terra compongono il programma delle attività collettive.Sempre al piano terra si trovano: aule per l’arte, per il computer e piccole sale conferenze.
Il progetto è l’esito di un concorso bandito nel 2008 che presentava una sfida piuttosto ardua: collocare lo Student Union in un’area ristretta compresa tra gli spalti di un piccolo campo sportivo e palazzi molto alti e con un dislivello di 12 metri rispetto al piano di calpestio dell’intorno. La risposta vincente, proposta dal team capeggiato da Moongyu Choi, è un sistema di attraversamenti che, da quota -12 metri, risale costeggiando il profilo del campo per poi emergere da terra prospettandosi sia come edificio che come paesaggio e suolo pubblico.Il progetto viene generato da operazioni di scavo e attraversamento a partire dal flusso che dall’ingresso del campus conduce alla piazza centrale, per poi girare su se stesso fino a diventare volume scendendo di sei livelli dalla quota di accesso.
Progettato dall’architetto Kim Jong-Kyu, fondatore dello studio MARU, questo complesso si pone programmaticamente come vetrina per i valori a cui il marchio si associa attraverso un’architettura dalle linee pulite ed eleganti, sostenibile, minimalista, invasa da un’uniforme luce naturale, in cui i materiali (cemento a faccia vista, metallo, laterizio e vetro) e le forme riprendono l’idea di chiarezza ed efficienza già espressi nelle aree funzionali, declinandoli nel senso di una maggiore apertura e ricercatezza e di un intenso rapporto con il paesaggio. Il ricercato dualismo tra funzionalità ed estetica si riverbera anche nell’uso e nella gestione degli spazi: non solo luogo di meditazione, ma anche area tecnica di produzione, il giardino botanico, come un moderno Giardino dei Semplici di tradizione orientale, viene utilizzato da AMOREPACIFIC per coltivare alcuni ingredienti botanici da utilizzare nelle proprie preparazioni.
Nonostante un lotto molto limitato (325 mq) per un’esigenza di spazi costruiti pari a circa 1.000mq, il volume forma a terra vuoti ben calibrati che restituiscono sul fronte principale l’immagine di un prisma elementare solido in cemento. La compattezza di questo prospetto e di quello adiacente lascerebbe intuire un manufatto architettonico dotato di una sua consistenza. Ma è girando l’angolo che quest’architettura rivela una seconda natura. Un grande vuoto centrale scava l’edificio: un cuore aperto accogliente, trasparente e pieno di vita, luogo di attività differenti e di socialità che rafforza le connessioni tra interno ed esterno. La sua superficie si piega verso il basso in modo continuo per raggiungere le due sale dei livelli interrati, rendendo questa discesa una tensione fluida verso nuovi punti di interesse che prolungano la strada fin dentro le viscere dell’edificio. Al piano terra trovano posto un piccolo parcheggio, un caffè, una gradonata in legno: uno spazio aperto ma protetto, in diretta comunicazione con la città.
Nel paesaggio urbano surreale di Paju Bookcity, esteso insediamento interamente dedicato al mondo dell’editoria, Unsangdong Architects realizza un asilo che prende forma da un concetto di mutazione spaziale di una matrice geometrica tridimensionale. L’unità primaria è costituita da un cubo, dimensionato sull’aula base. L’idea che innesca l’esecuzione del progetto viene dal pensare l’asilo “come un foglio bianco”, luogo dove i bambini creano i propri sogni e sviluppano la fantasia. La cellula base dell’aula si modifica fino a trasformarsi in spazi esterni diversi; cortili, terrazze, zone gioco all’aperto si compenetrano e si combinano agli spazi interni della scuola, che emergono come risultato dell’inviluppo di vuoto conseguente alle azioni di accumulazione e di sottrazione di superficie alle facce dei solidi appartenenti alla matrice cubica iniziale.
La Jung clinic è un elegante edificio progettato dai KYWC Architects e realizzato nel 2014 nell’isola di Jieu-si, nel sud della Corea. Posta nel cuore pulsante della città, la clinica privata si colloca in un lotto angolare, con due lati che affacciano sulle due arterie principali. L’edificio è arretrato rispetto alla strada e le relazioni che stabilisce con l’intorno sono prevalentemente di carattere visivo, attraverso cornici prospettiche che inquadrano all’interno brani di città. Nei due ingressi, uno posto a sud l’altro a ovest, due giardini artificiali fatti di acqua, legno, pietre ed erba, creano dei filtri tra la clinica e la città e offrono al pubblico spazi all’aperto da condividere. Questa commistione tra dimensione pubblica e privata emerge chiaramente nel disegno del piano terra, dove tali giardini sembrano disegnare un flusso che entra ed esce servendo volumi aperti alla città.
Il sito di progetto è un lotto d’angolo di poco più di 600 m, fra Dosan Park e l’irregolare tessuto di edifici commerciali e stretti vicoli del quartiere di Gangnam. Una condizione di confine nella quale il sensibile sguardo di Cho Byoung-soo (BCHO architects) intravede la possibilità di un incontro fra natura e urbanità. A questo scopo l’architetto progetta un impianto raccolto e arretrato rispetto alla strada, che lascia libero quasi il 50% del lotto. Una mossa tanto semplice quanto efficace, che permette di estendere idealmente la vegetazione del parco, prima in una striscia fiorita lungo il confine est, poi in un giardino di alberi e felci sul lato nord. Da qui si accede al mercato, un compatto parallelepipedo in cemento 14,5 x 23 m di base sollevato da terra. Privo di affacci sulla città, il volume si apre invece generosamente sul parco, con una serie di profonde terrazze e finestrature a tutta altezza che consolidano la relazione fra progetto e natura. Completa il complesso una struttura con tetto a falde. Adagiata lievemente fuori asse sulla copertura del mercato, questa ospita un piccolo caffè dalla cui ampia terrazza è possibile traguardare il vivace contesto urbano.
Il progetto dell’isolato ZWKM è localizzato nell’area Gangnam di Seoul. L’incarico prevedeva di realizzare edifici indipendenti per 4 diverse compagnie, su un lotto di 1600 metri quadrati. La proposta di un unico edificio pensato come la stratificazione di quattro programmi diversi è un esperimento riuscito alla perfezione. Il progetto lavora sul concetto di “Forma Collettiva”, già sperimentato dall’architetto in altri contesti, un sistema di coesistenza di edifici diversi fondati però su dei principi comuni. Non nasce dalla semplice sovrapposizione di blocchi ma dall’idea di connettere tra loro i lotti attraverso percorsi orizzontali, stratificati su livelli diversi. Su ogni livello vengono sviluppate differenti strategie e principi distributivi. Gli spazi di connessione tra i blocchi – giardini, luoghi di sosta, ambiti semi-privati etc.– diventano così gli elementi chiave di un palinsesto urbano che si identifica nell’architettura stessa.
Il nome dell’intervento “F1963”, dove F sta per Factory, definisce l’orizzonte temporale dell’intervento: la fabbrica viene costruita nel 1963 e cessa la sua produzione nel 2008. “Possiamo definire questa come “architettura del nuovo ciclo”, una reinterpretazione creativa di cose passate che mantengono tracce uniche della memoria e del tempo invece di perseguire una rigorosa tutela o una nostalgica ricostruzione” (dal testo dei progettisti). Il progetto F1963 porta avanti questo concetto di “nuovo ciclo” attraverso tre distinte azioni. La conservazione, intesa come utilizzo di elementi architettonici esistenti e di testimonianze del passato; la sottrazione, con la creazione di una corte interna e la demolizione delle pareti esistenti sostituite da una nuova facciata vetrata sul fronte d’ingresso, e l’addizione, per effetto della traslazione verso l’esterno della sagoma del prospetto principale che dà forma a uno spazio interstiziale rivestito in rete stirata color azzurro cielo. Questo colore diviene elemento architettonico unificante le volumetrie e gli spazi che compongono l’ampia superficie costruita dell’intervento.
La House of 20.000 Books si inserisce in un fitto tessuto di case unifamiliari. Ultimo lotto non costruito dell’area, il sito è chiuso a sud e a ovest da abitazioni costruite a ridosso del confine mentre a nord è lambito da una strada trafficata. Un contesto che pone inevitabili vincoli al progetto a cui si aggiungono le stringenti limitazioni dettate dal regolamento edilizio locale su altezza e pendenza delle coperture. Minsuk Cho risponde a questo rompicapo progettuale con un impianto composto da due volumi a base rettangolare e tetti a falda unica attestati lungo i lati corti del sito che, collegati da un corpo centrale di distribuzione, definiscono due corti interne. A conferire all’insieme un’immagine compatta in corrispondenza delle corti il rivestimento di facciata in listelli di legno prosegue senza interruzioni in un’alta recinzione. All’interno di questo guscio che garantisce privacy e quiete la vita familiare si intreccia con l’immensa collezione di libri del docente che ci abita in una promenade dai chiari riferimenti lecorbusiani.
Il progetto per le residenze studentesche della Daejeon University, costruito su un dislivello, nasce dall’aggregazione di volumi semplici a formare un grande blocco in mattoni bruni. Un sistema di tagli a nastro graffia la superficie del grande blocco unitario e il sistema dei tagli verticali si contrappone all’orizzontalità delle finestre. Il blocco è diviso in due parti da un piano continuo vetrato ed è attraversato dalla strada di collegamento con le altre zone del campus. L’ingresso riprende il colore della terra, quasi a rendere l’impatto del passaggio esterno-interno il più possibile delicato. Le altre pareti dell’ingresso sono grigie mentre i pavimenti chiari sono interrotti da fasce nere. In questo modo si lavora con la luce scegliendo i contrasti e gli elementi da mettere in risalto; la luce diviene un elemento importantissimo ed è usata come un vero e proprio materiale da costruzione.
ARGOMENTI
– Duilio Cambellotti poliedrico artista romano – Pag. 112
– Tra rigenerazione urbana e sostenibilità ambientale. Il nuovo approccio alla pianificazione del Piano operativo di Prato – Pag. 117
– Fabrizio Carola. Il ruolo sociale della tecnologia per l’architettura – Pag. 120
LIBRI – Pag. 124
INDICE 2018 – Pag. 125
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