A questo punto anche il concetto di spazio
va riformulato, infatti, il sogno non è un
luogo abitato dalle immagini-simulacro,
semmai sono le stesse immagini generatrici di spazio, ma senza confini né orizzonti,
prese in un vortice che annulla la
separazione tra prossimità e distanza.
Tutto retrocede e avanza, nulla si presenta o
si offre a un soggetto, ma c’è un
fabbricatore/spettatore che fa parte dello
stesso simulacro che include in sé il punto di
vista (come dice Deleuze).
Lo sciame luminoso delle immaginisimulacro,
che condensandosi e
disperdendosi accende la scena del sogno,
ci dice come questo flusso sembra seguire
un profilo curvilineo come tracciato sulla
superficie di una sfera. Si attraversano
corridoi, si alzano volte, ma ogni movimento
sembra guidato dall’estensione e
contrazione di una curva. Anche l’uscita di
scena delle figure non avviene frontalmente
assorbita dal fondo, ma s’inabissa seguendo
la chiusura della curva come per
ricongiungersi con il punto che l’ha
originata. Oggetti architettonici, dunque, ma
impegnati in rotazioni, inflessioni, superfici
arrotondate, che lievitano, si rigonfiano.
E ancora blocchi di figure che si sollevano
sulle loro stesse forze andando da sé a sé
senza vuoti o pause, in un succedersi di
specchiature che sovvertono quel
dispositivo prospettico che dispone di un
punto di vista e quindi di una distanza.
Chissà, mi chiedo, se Gaudì, Joujol o lo
stesso Sharoun hanno subito il fascino di
queste singolari apparizioni notturne senza
cedere allo scandalo della parola, al
racconto diurno di un testimone.
Nelle loro architetture sembra prevalere uno
sguardo disinteressato, disinibito, liberato
dai lacci dell’interpretazione favorendo la
presentazione a dispetto della
rappresentazione. Non il ricordo di oggetti
distinti, ma forme fluide prese in un
movimento vertiginoso dove la materia si
lascia attraversare aprendo nuove vie senza
orizzonti ne approdi.