20 January 2023

Dialogo tra Gianni Pettena e James Wines


Gianni Pettena, esponente di spicco dell’architettura radicale italiana, e James Wines, fondatore del noto gruppo statunitense SITE, entrambi architetti e artisti, si sono conosciuti alla New York University nel 1971. Da quel momento il loro sodalizio, basato su un continuo e proficuo scambio di idee, è stato assiduo, trasformandosi in una solida amicizia. Non solo pensavano che l’architettura dovesse essere una disciplina aperta e integrata con le altre arti, ma le loro idee radicali nascevano da un profondo legame con i contenuti di carattere sociale, politico e di attenzione all’ambiente, esercitando un’azione dissacratoria nei confronti dei miti della società dei consumi. Sono stati epigoni dell’arte ambientale e alleati convinti nel perorare la causa del “more with less”, ovvero della possibilità di costruire e trasformare i contesti con azioni esteticamente valide ma meno dispendiose, minimali e innovative. Quello che più conta per entrambi non è l’oggetto formale in sé quanto piuttosto l’idea, il concetto che a esso sottende e l’effetto che questo può avere sulle persone. Provocando pensieri e suscitando interrogativi, alcune opere di Gianni Pettena – si pensi ad esempio alla Ice House, alla Clay House o al Tumbleweeds -, pur avendo una breve durata, possono essere considerate eterne. D’altra parte, anche James Wines con SITE interviene frequentemente sullo spazio pubblico con strategie tra arte e architettura e con precise finalità comunicative, come nella nota installazione del 1978, Ghost Parking Lot, creata in un anonimo parcheggio del Connecticut per trasmettere un semplice messaggio sul consumo delle risorse e sull’inquinamento prodotto dalle automobili. Oggi, di fronte all’aggravarsi dell’emergenza energetica e ambientale, alla riduzione delle risorse naturali e alla scarsezza dei mezzi economici in molte aree del pianeta, è quanto mai attuale interrogarsi sul ruolo dell’architettura e sulla necessità di adottare modalità di trasformazione meno violente e più rispettose dell’ambiente e delle persone. Per questa ragione abbiamo chiesto a Pettena e Wines, ai quali siamo molto grati per avere accettato con lo spirito e l’entusiasmo che da sempre li contraddistingue, di intraprendere un dialogo per raccontare la loro storia e quella del “virus radicale”, presentando il loro pensiero alla luce delle più recenti necessità del nostro tempo.
GP – James e io ci siamo incontrati alla New York University in occasione di una mia conferenza nel 1971. Mi aveva invitato Howard Conant, direttore dell’Art Department, nel suo corso di Environmental Design. E indovinate chi ci insegnava? James Wines! Alla fine della lecture ci siamo conosciuti e così è iniziata la nostra amicizia, che dura tuttora.
JW – Ricordo molto bene quella conferenza perché rifletteva tante delle idee in cui credevo anch’io: è stata una felice coincidenza in cui si sono incontrate due persone che la pensavano allo stesso modo. Avevamo in comune un atteggiamento critico nei confronti dell’architettura di quegli anni. Il fatto che arte e architettura fossero completamente separate era conseguenza di un’idea di progetto totalmente “chiuso” in cui la specializzazione impediva l’ingresso a idee di integrazione. Gli architetti allora (e i più lo sono anche ora) erano concentrati sulla forma e sulla struttura, oltre al consueto vocabolario formalista e funzionalista. Partendo da prospettive diverse, Gianni e io stavamo soprattutto creando nuovi livelli di contenuto nei quali l’architettura poteva attingere a una vasta gamma di idee. A quel tempo sia io che Gianni eravamo in contatto e sintonia con gli artisti ambientali. L’iniziativa di creare ibridazioni tra le arti si stava manifestando alla fine degli anni ’60, primi anni ’70 a New York – a Soho in particolare – come a Milano, Firenze, Vienna e Parigi. Solo l’architettura, nella sua visione moderno/costruttivista, rimaneva isolata! – E questo suo isolamento, in buona parte, esiste ancora. Forse ora un po’ meno, perché penso che Gianni e io abbiamo avuto un ruolo d’impatto nel diverso atteggiamento dell’ambiente artistico nei confronti di queste “tradizioni”. Però, ancora oggi, ce ne sono tante di queste barriere. All’inizio entrambi abbiamo sofferto per quello che pensava l’establishment del mondo dell’architettura, cioè che quello che facevamo non fosse “vera architettura”, qualunque cosa si intenda poi con “vera”.
GP – Io penso che quest’idea del “vero/non vero” sia in realtà assurda e falsa, perché anche se un certo numero di nostri lavori non sono sopravvissuti, come conseguenza dell’ossessione crescente di abbattere e ricostruire, sono le nostre idee che si sono diffuse e hanno continuato a esercitare influenza. E poi, in realtà abbiamo costruito, fisicamente, delle strutture, a differenza di gran parte della coeva sperimentazione in architettura che si limitava a produrre fotomontaggi, disegni e installazioni temporanee. Noi ci siamo confrontati con il mondo reale, con le vere dimensioni e con la complessità del contesto di una città. E comunque abbiamo fatto un lavoro importante di ricerca in architettura anche attraverso scritti e modelli.
JW -Tutti e due buttiamo giù prima le idee sulla carta, perché quello che ci interessa è l‘idea, più che la semplice realizzazione di un solo, isolato, “oggetto artistico”. Quello che interessa a me nell’arte non è tanto “cos’è”, quanto “a cosa mi fa pensare”. Per entrambi le caratteristiche di introspezione, contemplazione e versatilità sono ciò che ci interessa di più: ci pongono interrogativi più che cercare di fornirci soluzioni formali. Io e Gianni, fino dai nostri inizi, abbiamo sostenuto un’idea multidisciplinare di “ibridazione” tra le arti e abbiamo cercato di ampliarne la definizione. Per esempio ci siano battuti per quel genere di arte performativa che liberava gli attori dalle tavole del palcoscenico per scendere invece nelle strade. Abbiamo incoraggiato gli artisti ad abbandonare le gallerie d’arte per esplorare invece luoghi e aspetti della città. Abbiamo partecipato al periodo in cui tutti erano alla ricerca di qualcosa.
GP – Si, erano anni in cui la gente sembrava interessata a operare secondo criteri di integrazione, non solo in architettura ma anche nel mondo reale, nelle città, in ambiente rurale e ovunque nell’organizzazione della vita in comunità. Ancora oggi ci sentiamo parte di quel genere di città, perciò il nostro lavoro deve essere di dominio pubblico, deve creare un dialogo usando la stessa scala e gli stessi strumenti dell’architettura. Ma noi usiamo linguaggi diversi, molto più liberi. Fin dagli inizi, alla fine degli anni ’60, il nostro lavoro sullo spazio è stato una forma di critica teorico-concettuale.

Gianni Pettena, Architecture forgiven by nature, Brufa, Perugia, 2017

JW – Si, il nostro lavoro di quegli anni ha veramente avuto contenuti di carattere sociale, politico e di attenzione all’ambiente. Credo che l’elemento fondamentale di tutto quel periodo stia stato il fatto che l’arte più “sociale” – cioè il rapporto tra edifici e spazi comunitari – non riusciva a trasmettere un tipo di informazione significativa. Ciò che mancava dal dialogo erano proprio i messaggi rivolti alla gente.
GP – I messaggi che riguardano tutti, quelli che storicamente davano dignità a un’architettura, erano trascurati. Le molte tipologie di architettura costruita, riconosciute come l’essenza della comunicazione, ormai mancavano.
JW – Parlando dell’influenza dell’Italia, direi che il solo fatto di lavorarvi è stato l’inizio di un totale cambiamento nel mio modo di pensare. Ho cominciato ad accorgermi che avevo stabilito un dialogo con gli edifici… Quando poi sono tornato a New York ero molto più consapevole del fatto che gli edifici erano il risultato di forma, spazio, struttura e tecnologia, cose noiosissime che non coinvolgevano la gente. Il messaggio che l’architettura di Manhattan in gran parte trasmetteva era che gli edifici erano come cornici su un muro senza dentro il quadro. Per gli architetti sembrava più importante il come una struttura veniva costruita rispetto a quello che significava. I contenuti sociali, politici ed ecologici di maggior portata venivano elusi. Per tornare alla nostra idea di rapporto con l’ambiente, credo che sia stato importante usare contesti pubblici come luogo primario di comunicazione. Venturi aveva ragione quando parlava della necessità di disordine e di contrasti nell’edilizia pubblica. Questa è stata la lezione più importante del suo lavoro. Tutti ora riconoscono che la vitalità casuale di molte strade oggi dipende dal caos, dall’indeterminatezza e dalle innovazioni che la gente crea da sola. Gran parte di queste loro attività e delle relative strutture sono molto più interessanti dell’architettura.
GP – Quello che volevamo era anche, in un certo senso, dare a ciò che aveva a che fare con l’architettura dei livelli di comunicazione visiva del tutto diversi. In quei primi anni ci interessava molto l’inclusione di elementi “non-architettonici” negli spazi pubblici. Perciò il tuo lavoro e il mio erano semplici, spesso minimali. Affermavamo un punto di vista alternativo, dichiaravamo il nostro dissenso perché volevamo che fosse rispettata l’idea di architettura, che non fosse dettata dalle mode.
JW – Entrambi affermavamo che “l’architettura è arte più che progetto”. Quello che ci tengo a dire qui è che si deve molto a te, per essere stato il primo architetto/artista che ha effettivamente usato edifici esistenti come oggetto del proprio lavoro. Infatti, tu hai anticipato Gordon Matta-Clark, Alice Aycock, Mary Miss, Dennis Oppenheim, cioè tutti gli artisti ambientali che sono venuti dopo di te e solo allora hanno cominciato a lavorare con la natura e i “found buildings” come loro spunto iniziale. I tuoi primi lavori, quelli della fine degli anni ’60, hanno preceduto quelli di altri artisti, perciò tu sei stato davvero il pioniere di un’epoca. Tante cose che abbiamo fatto agli inizi ancora non sono state capite dalla maggior parte del mondo dell’architettura. Noi abbiamo veramente infranto delle regole e sperimentato dei nuovi modelli concettuali. Ora l’arte ambientale si è diffusa a livello internazionale e si lavora su variazioni del tema. Penso che tutti questi nuovi “partecipanti” dovrebbero comprenderne le origini, e anche che, soprattutto negli anni ’60 e ‘70’, si è fatto molto per promuovere la comunicazione pubblica in forma di urban art. Il problema con i movimenti artistici che durano troppo è che non hanno più niente di nuovo da dire. Quando invece io e Gianni abbiamo cominciato, c’era tutto da dire. Potevamo prendere in giro certi edifici, criticarli, scambiarli tra loro, cambiare la definizione stessa di architettura. Oggi, ci sono tanti nuovi messaggi che potrebbero essere rivolti al pubblico
GP – Si, l’arte deve avere dei contenuti “rischiosi”, dare a chi guarda una sensazione di “disequilibrio”. È una particolare qualità che invita chi guarda a stabilire dei collegamenti con ciò che guarda. Questo significa che il tuo pubblico deve “cambiare idea su qualcosa” e riconsiderare il proprio, tradizionale, punto di vista. Il nostro lavoro pone degli interrogativi molto semplici. Che rapporto c’è tra i grattacieli che si costruiscono e le nostre proposte? Che tipo di rapporto di solito il pubblico pensa che ci dovrebbe essere? Fin dalle iniziali presentazioni pubbliche del nostro lavoro, queste condizioni di “dubbio” hanno provocato da parte del mondo dell’architettura ufficiale un rifiuto ad accettare queste sfide di carattere concettuale. E alla fine, dopo dieci, quindici anni, tutte le nostre idee, le tue e le mie, sono state copiate e fatte proprie senza citare la fonte. Stranamente, gli architetti sembrano sempre preferire la traduzione di idee originali in derivazioni stilistiche: un plagio che va avanti dall’inizio del diciannovesimo secolo.
JW – Mi stupisce molto che il nostro lavoro abbia avuto tanta influenza perché spesso è stato assorbito e riproposto da altri che non ne capivano neanche i contenuti. Io continuo a sottolineare che quello che ci interessava non erano forma, spazio e struttura ma piuttosto i concetti, l’atteggiamento e il contesto: ingredienti che sono una fonte di informazione del tutto diversa.
GP – Quando si progetta un edificio, questo viene sempre considerato come un monumento destinato al futuro; si pensa che questo oggetto statico, immobile, rimarrà nel tempo più della vita dell’architetto e che questo sia lo scopo ultimo. Per me e James invece il risultato è sempre stato relativo alle idee che avevamo riguardo al linguaggio dell’architettura e ai modi diversi e innovativi di interpretarlo. Questa è una cosa che, ancor oggi, non è del tutto accettata dalla maggior parte del mondo dell’architettura.

Gianni Pettena, Ice House II-Casa Cubo - Minneapolis - USA 1972

JW – Anche se, in generale, ciò che abbiamo fatto viene apprezzato, troppi concetti e le loro conseguenze non sono stati studiati a fondo. Ci sono troppe imitazioni “annacquate” di giovani artisti e designers che riguardano più lo stile che la sostanza. Nel mio caso, continuo a veder ripetere certi aspetti del mio lavoro – per esempio la frammentazione, l’inversione, la trasparenza e l’illusorietà – che vengono usati per edifici o spazi senza che l’intento originario sia compreso. Queste repliche delle idee di SITE non tengono mai conto dell’osservazione del contesto, mentre per me è sempre stata alla base del contenuto. Tornando alla questione del rapporto tra architettura e natura e a quella della sua dimensione ecologica, Gianni e io abbiamo sempre creduto che si potessero ottenere risultati esteticamente interessanti con mezzi semplici e al tempo stesso innovativi. Pensavamo che fare delle forme stupefacenti in nome della grande arte non fosse né desiderabile né necessario. Sapevamo che si poteva costruire facendo scelte più minimali e meno dispendiose; si poteva scegliere una scala più minuta, costruire senza provocare un forte impatto cambiando l’approccio concettuale. Siamo stati pionieri di interpretazioni diverse del more with less. Per questo abbiamo sempre incorporato nel progetto dei riferimenti al contesto. Per quanto mi riguarda, ho fatto edifici che si integravano nel panorama esistente e interferivano il meno possibile con il contesto.
GP – E non dimentichiamoci della qualità delle nostre critiche. Anni fa hai fatto un bel disegno di un grattacielo nel quale ogni piano era suddiviso in piccole proprietà immobiliari ognuna delle quali conteneva una casetta unifamiliare. Questo tipo di soluzione, personalizzata e al tempo stesso anonima, era esattamente ciò che James voleva esprimere nella sua attività di architetto.

James Wines & SITE, Highrise of Homes, 1981

JW – È interessante che ancor oggi l’Highrise of Homes sia il progetto di SITE più richiesto nei libri e nelle pubblicazioni in generale. Credo che la costante rilevanza di questa proposta stia nel fatto che la gente che vive in un grattacielo non riesce ad avere un’identità propria nella città di oggi. L’individuo nel tessuto della città oggi non esiste. Perciò nel HoH l’idea era quella di fornire residenze separate che sopraffacessero l’anonimità tipica di un grattacielo. Ho pensato che un buon tentativo per realizzare questa idea sarebbe stato quello di proporre a un imprenditore di seguire il metodo, concepito nel 1910, della Sears Roebuck di “ordinare una casa per posta”. Queste proposte della Sears offrivano un kit di parti della casa che il proprietario poteva assemblare nello stile preferito. Nel caso del HoH queste unità d’abitazione potevano essere collocate all’interno di una megastruttura. Così l’intero edificio diventava un collage casuale delle scelte delle persone. Ironicamente, questo progetto era anche una versione architettonica dell’idea di Duchamp di arte come “canned chance”.
GP – Ricordo anche il tuo progetto di parcheggio in cui le macchine erano completamente ricoperte dall’asfalto. Anche se questa idea era irragionevole e in un certo modo apocalittica, queste macchine sepolte venivano usate come parco-giochi per bambini. Un intervento sullo spazio pubblico che si apriva alla partecipazione della gente attraverso una critica del carburante fossile che provocava inquinamento.
JW – L‘ installazione nel parcheggio nel Connecticut intendeva trasmettere un messaggio semplicissimo: le automobili per funzionare consumano carburante fossile e l’asfalto si ricava dal petrolio ma in questo caso è il petrolio che consuma le automobili. Nei primi anni di SITE, ho avuto l’opportunità di realizzare dei progetti ma il nostro studio ha lavorato anche e soprattutto con installazioni temporanee. Quasi tutti i progetti di Pettena, degli anni ’70 e ’80 – lavori come le Ice House, le case coperte di fango, le Wearable Chairs e il progetto Tumbleweeds – si basavano su elementi effimeri. La maggior parte di questi tuoi progetti avevano la caratteristica di sembrare allo stesso tempo eterni e temporanei e ponevano moltissimi interrogativi riguardo a ciò che è vero oppure illusione, la presenza e la scomparsa, l’abitabile e l’inabitabile.
GP – Ancora adesso penso che non stiamo usando abbastanza dinamite. Siamo sopraffatti da architetture anonime, costose e inutili, costruite spesso in luoghi quasi inaccessibili, come il deserto o sulla cima di una montagna. James ti ricordi quelle performance che ho fatto scrivendo la parola “architettura” sulla sabbia, molto vicino all’acqua? Questa idea riguardava l’impermanenza. Calcolando l’azione delle maree, in circa 15 minuti la parola veniva cancellata dalle onde della marea crescente. Tutto questo diventava la sintesi di quello che accadrà alle architetture dell’uomo per opera della natura. Questo progetto esprime la mia idea che gli eventi atmosferici possono essere più poetici e fornire più informazioni della consueta interpretazione dell’architettura come elemento “scultoreo” di resistenza nei confronti della natura.
La versione integrale di questo dialogo è stata pubblicata in l’industria delle costruzioni 485 -Architetture effimere- maggio/giugno 2022

Articoli correlati

Dimitris Pikionis e l’Acropoli di Atene. Settanta anni di un cantiere memorabile