25 Marzo 2025

Su Manfredo Tafuri (1935-1994)

dalla rubrica ARGOMENTI

A trent’anni dalla fine delle sue attività di storico dell’architettura e di guida intellettuale, svoltesi in vita sempre sottoponendo a una collettiva verifica di senso ogni sua presa di posizione, la questione delle scelte che prendemmo insieme acquista un’inedita attualità. Erano quelli gli anni in cui prevaleva, nell’orientamento di ognuno di noi, la visione di un campo ancora da “occupare” e di un’attività da indirizzare, destinata a confrontarsi con l’esistente realtà fattuale. Si osservino le diverse fasi del “confronto” che fu avviato: da una parte l’eredità di un patrimonio storico da studiare e su cui riflettere, dall’altra la sua conservazione e trasformazione progettuale. La visione delle diverse alternative che se ne ricavavano stimolava la collaborazione e la fiducia nel lavoro progettuale di gruppo. Tutto inizia con lo sviluppo delle iniziative facenti capo all’AUA e all’ASeA, le associazioni in cui si fondevano le spinte ideali e le visioni disciplinari con le istanze politiche delle nuove leve del Movimento studentesco. Sentivamo di far parte di un movimento culturalmente emergente e di poter svolgere un ruolo di appoggio all’iniziativa delle Associazioni nella prospettiva di una futura appartenenza del complesso dei beni patrimoniali al demanio pubblico. Una svolta decisamente storica, quella dell’orientamento generale e della spinta innovativa che ne costituiva l’aspetto più evidente e qualificante. Essa va riferita innanzitutto, agli inizi del nostro rapporto, agli anni in cui tentammo di porre le basi di un collettivo progettuale e di ricerca. Occorre a questo proposito tornare alla partecipazione all’organizzazione del gruppo iniziale, quello degli Architetti Urbanisti Associati, AUA, attivo nel primo decennio degli Anni Sessanta, dedito, appunto, alla conferma di un’idea di continuità rispetto ai temi e ai tempi del Movimento Moderno in architettura. Occorre risalire a quanto cercammo di fissare, ponendo al centro della nostra organizzazione la figura di Manfredo Tafuri (1935-1994) con il suo carisma personale prima della sua definitiva decisione di dedicarsi esclusivamente, da architetto, al lavoro di storico dell’architettura, abbandonando così la sua attività progettuale. La decisione di abbandonare la progettazione per dedicarsi esclusivamente al lavoro di storico obbediva innanzitutto allo spessore concettuale del suo apporto. L’aver riunito in pochi soggetti lo strato superiore del pensiero collettivo dell’AUA aveva già prodotto un’interessante gerarchia dei vari meriti personali, in cui quello politico-culturale, il suo, sicuramente si piazzava al livello più alto. Con Manfredo si era già creata un’intesa sin dalla prima volta in cui ci siamo misurati con il lavoro storico-critico, da mettere alla prova di un’operatività architettonica ogni volta soggetta a una valutazione nel merito. Risalgono appunto ad allora le specificità degli orientamenti da applicare alle nostre prime prove pratiche di progettualità, da sottoporne ad una preliminare verifica di senso, resa peraltro problematica vista l’aleatorietà delle loro motivazioni. È inevitabile a questo punto risalire alle diverse fasi del “confronto”, alla condizione cioè di attesa che il lavoro comune svoltosi all’inizio non poteva non implicare e, al tempo stesso, considerare proprio il fine di tale attesa come una sospensione di giudizio, destinata a durare fino alla maturazione di una convinzione collettiva.

Copertine di alcuni volumi di Tafuri

E non sarà stata proprio tale sospensione critica a farci comprendere la sua giusta necessità? Subito fu deciso che nel gruppo dell’AUA fosse Manfredo ad assumere il compito di inquadrare storicamente i casi da affrontare, rivelandone gli intrecci storici che ne stavano alla base. Tale fu il caso che contribuì decisamente a qualificarci come esperti di storia urbana. Decisivo fu il ruolo di Manfredo in occasione del Convegno su villa Savoia, che aprì la serie dei lavori sulle grandi ville storiche romane e che per l’occasione mostrò la nostra capacità di risolvere la complessità del caso dovuta alla sua appartenenza fondiaria alla Casa reale. Il Convegno fu organizzato da Italia Nostra, Presidente il notaio Staderini, presenti e attivi in essa Mario Manieri Elia e Italo Insolera, con Tafuri e Quilici incaricati di presentare il caso e di elaborarne un piano particolareggiato. Agli inizi ci fu anche attribuito il compito di impegnarci in operazioni di urbanistica spaziale e territoriale, come quella del Piano Regolatore di Roseto degli Abruzzi in cui sarebbe stata necessaria l’attenzione al tema dell’infrastruttura autostradale, da posizionare lungo il territorio costiero adriatico. Mentre il gruppo si dedicava alla sistemazione spaziale alla grande scala, la partecipazione di Manfredo si concentrò essenzialmente nella sua presenza accanto al tavolo di lavoro del gruppo, pronto in ogni passaggio progettuale ad avanzare proposte spaziali. Una presenza, dunque, la sua, dotata di prestigio culturale e “politico”, ma sempre pronta a collaborare nelle scelte formali del progetto. Discorso a parte richiede l’amicizia e il rapporto che si era creato con me anche dopo il suo insediamento nella sede di Venezia. A tal fine occorre prendere in esame l’aspetto centrale di una ricerca sulle Avanguardie che riguardava l’origine dei nostri comuni interessi nel campo specifico della Modernità: ciò che nel tempo sarebbe poi maturato nel mio interesse per il Costruttivismo russo e per Manfredo nella possibilità di fondare nella sua sede veneziana un centro di ricerca storica riconosciuto internazionalmente. Ancora agli inizi della nostra organizzazione ci fu anche un incarico fortemente connotato da temi di progettazione spaziale, quello relativo alla sistemazione architettonica della Rocca storica di Fano5, per la quale si rendevano necessarie invenzioni che dessero seguito alla creazione di una nuova unità architettonico-spaziale dell’insieme. La partecipazione di Manfredo in tale occasione si limitò ancora alla sua presenza fisica e simbolica nel gruppo iniziale di progettazione, che si tradusse nei suoi preziosi commenti critici sull’evoluzione delle forme nel progetto. Ciò che costituiva la maggiore importanza del suo contributo non si rivelava subito e direttamente in appoggio a uno o a un altro degli aspetti del progetto, ma rimaneva sempre associata alla funzione dialettica della sua presenza, che andava ad aggiungersi alle scelte che, grazie alla discussione del gruppo, più esplicitamente si riferivano alle forme del progetto così come si stavano configurando. La sua fama, dunque, non costituiva esclusivamente un motivo di prestigio, suo e per la sua sede accademica. Per me, poi, in particolare, si trattava di una sorta di sdoppiamento di interesse nella ricerca, per analogia di pensiero critico di ambedue i soggetti. Occorre anche tener presente che il nostro rapporto, anche dopo il raggiungimento del suo ruolo di Direttore di tale Centro, non si tradusse conseguentemente nel distacco materiale dalla sede romana dello studio di piazza dei Caprettari, che ospitava ormai solo me e ogni fine settimana anche Manfredo. Potevano così non interrompersi i buoni rapporti con il gruppo d’origine, permettendo un nostro continuo confrontarci.

Questo articolo è pubblicato in l’industria delle costruzioni 496 -Città in Scena – dic/mag 2024

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