24 Settembre 2024

Sognare l’architettura

dalla rubrica SPAZIO/ARTE

Si può parlare di architettura onirica? Di oggetti architettonici che ci appaiono in sogno? Certo, ma come per tutte le immagini oniriche vale l’affermazione di Seneca: la narrazione del sogno spetta soltanto a colui che veglia. Quindi è compito di un testimone vigile prendersi carico di ricostruire la scena originaria del sogno. Ma la veridicità della testimonianza è messa alla prova due volte. Non solo il sogno, refrattario alle logiche della narrazione, non è restituibile in forma di racconto, ma la parola stessa nella sua esigenza di avere un proprio posto necessariamente si separa dalle cose, prende distanza dagli eventi. Allora è lecito chiedersi: cosa resta del sogno? E i nostri oggetti architettonici? Probabilmente nell’infedeltà del racconto qualcosa sembra conservare i contorni di un’architettura quanto basta per dire che l’abbiamo sognata, che una certa immagine ci è apparsa prendendo la forma di un ricordo che ci permette di riconoscerla. Ma nel sogno non confluiscono singoli ricordi come nello stato di veglia, dove accedono immagini definite, selezionate e dunque funzionali alle nostre necessità, qui si riversa l’intera memoria in una massa indistinta, uno sciame di figure libere da ogni corrispondenza, che non passando più per la mediazione dell’interpretazione, sospende la distanza tra soggetto e oggetto; chi vede si vede insieme a ciò che si manifesta. In altre parole immagini pure che rifuggono dal dominio del senso, depurate dalle logiche della narrazione e quindi indisponibili a essere usate come immagini di qualcosa. Nel sogno, quindi, l’idea convenzionale di immagine deve necessariamente essere riformulata in immagine-simulacro che dirotta il proprio tragitto verso qualcosa a cui farebbe segno, per diventare essa stessa cosa, suscitando la cosa anziché rappresentarla.

Senza Titolo, 2023, Musée BPS22, Charleroi

Ebbene, 2007, Galleria Guidi, Roma

A questo punto anche il concetto di spazio va riformulato, infatti, il sogno non è un luogo abitato dalle immagini-simulacro, semmai sono le stesse immagini generatrici di spazio, ma senza confini né orizzonti, prese in un vortice che annulla la separazione tra prossimità e distanza. Tutto retrocede e avanza, nulla si presenta o si offre a un soggetto, ma c’è un fabbricatore/spettatore che fa parte dello stesso simulacro che include in sé il punto di vista (come dice Deleuze). Lo sciame luminoso delle immaginisimulacro, che condensandosi e disperdendosi accende la scena del sogno, ci dice come questo flusso sembra seguire un profilo curvilineo come tracciato sulla superficie di una sfera. Si attraversano corridoi, si alzano volte, ma ogni movimento sembra guidato dall’estensione e contrazione di una curva. Anche l’uscita di scena delle figure non avviene frontalmente assorbita dal fondo, ma s’inabissa seguendo la chiusura della curva come per ricongiungersi con il punto che l’ha originata. Oggetti architettonici, dunque, ma impegnati in rotazioni, inflessioni, superfici arrotondate, che lievitano, si rigonfiano. E ancora blocchi di figure che si sollevano sulle loro stesse forze andando da sé a sé senza vuoti o pause, in un succedersi di specchiature che sovvertono quel dispositivo prospettico che dispone di un punto di vista e quindi di una distanza. Chissà, mi chiedo, se Gaudì, Joujol o lo stesso Sharoun hanno subito il fascino di queste singolari apparizioni notturne senza cedere allo scandalo della parola, al racconto diurno di un testimone. Nelle loro architetture sembra prevalere uno sguardo disinteressato, disinibito, liberato dai lacci dell’interpretazione favorendo la presentazione a dispetto della rappresentazione. Non il ricordo di oggetti distinti, ma forme fluide prese in un movimento vertiginoso dove la materia si lascia attraversare aprendo nuove vie senza orizzonti ne approdi.
Questo articolo è pubblicato in l’industria delle costruzioni 495 -Premi IN/ARCHITETTURA 2023 – giu/nov 2024
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