4 Settembre 2023
Una casa “per tutti”. L’architettura democratica di Stefania Filo Speziale tra Capri e Agnano
Stefania Filo Speziale, prima donna
laureata in architettura a Napoli nel 1932,
docente dell’Ateneo fridericiano dal 1937 al
1980 e pionieristica protagonista della scena
professionale partenopea del secondo
dopoguerra, dedicò gran parte della sua
sperimentazione progettuale al tema
dell’abitare. Sebbene autrice di oltre
centocinquanta opere realizzate e figura
accademica di riconosciuto spicco (impegnata,
negli anni Sessanta, a traghettare la disciplina
dei “Caratteri Distributivi degli Edifici” entro il
più fertile campo degli studi imperniati attorno
al rapporto tra architettura e città), il suo nome
rimane ancora oggi ineluttabilmente legato ad
alcune, specifiche vicende progettuali dalle
alterne sorti.
Come fossero tre punti nodali di una parabola
dalla fin troppo semplicistica traiettoria, le
realizzazioni nell’ambito della Mostra
d’Oltremare (1937-1940), il cinema-teatro
ipogeo Metropolitan (1946-1948) e il
grattacielo della Società Cattolica di
Assicurazione (1954-1957) costituiscono i più
noti episodi attraverso i quali tratteggiare
rispettivamente la rapida “ascesa”, la fase di
“apogeo” e la rovinosa “caduta” della
progettista napoletana e della sua fortuna
critica. Eppure questi tre “momenti”, per quanto
significativi e densi d’interesse, raccontano solo
parzialmente la ricchezza dell’impegno
progettuale profuso da Filo Speziale,
dispiegatosi, in un tempo lungo, soprattutto nel
campo dell’abitazione urbana.
È oggettivamente difficile, d’altro canto,
ricostruire nella sua interezza il profilo
complesso ed enigmatico di chi ha, per scelta
esplicita, tentato di dissolvere le proprie tracce
nel nulla. Stefania Filo della Torre di Santa Susanna – nata
a Napoli nel 1905 in una famiglia di nobilissime
origini e coniugata Speziale nel 1940 – ha infatti
deliberatamente distrutto l’intero archivio dei
suoi progetti poco prima di morire nel 1988,
contribuendo in questo modo a confinare
nell’ombra la propria produzione architettonica. Il suo operato è occasionalmente riemerso
anzitutto nel florido alveo di quegli studi critici
che si sono occupati, ad ampio spettro, della
prima, titanica e collettiva sperimentazione del
“moderno” a Napoli: la Mostra d’Oltremare.
Stefania Filo Speziale in una foto d’epoca
I padiglioni disegnati da Filo Speziale –
bombardati durante la guerra e mai più
ricostruiti – rappresentavano infatti una quota significativa di quelle eleganti sperimentazioni
“razionali” che la prima generazione di giovani
laureati dell’Ateneo fridericiano oppose,
nell’eterogeneo recinto della Mostra,
all’incombente e retorica architettura di regime.
Proprio nell’“aura di leggerezza, di trasparenza,
con effetti cangianti ottenuti per filigrana e
dissolvenza” che connotava le architetture del
Settore della Produzione e del Lavoro della
Triennale d’Oltremare, inoltre, è possibile
rintracciare l’originaria tensione innovativa che
caratterizzerà, senza soluzione di continuità,
gran parte della ricerca progettuale di Filo
Speziale. Se le composizioni sperimentate dalla
progettista napoletana certamente si
distinguevano per lessico e sintassi,
dall’architettura tronfia proliferante in altri
ambiti dell’Esposizione, allo stesso tempo la
loro tersa “modernità” non poteva in alcun
modo dirsi direttamente riferibile a stilemi
internazionali d’immediata riconoscibilità.
L’utilizzo disinvolto e combinato, in trame
insolite, di legno, calcestruzzo armato e
materiali ceramici, infatti, spinse Plinio Marconi a osservare: “l’arch. Stefania Filo […] realizza
con semplicità di mezzi alcune architetture di
notevole senso plastico e pittorico, con dettagli
di gusto assai spigliato”. Ciò traspariva con
evidenza, ad esempio, nella tensione tra
linguaggio moderno e vocabolario arcaico che
informava il prospetto del Padiglione della
Silvicoltura e del Legno, ove era la costruzione di
una tessitura fatta di canne di bambù (orientate
nelle due direzioni tra loro ortogonali) a
generare la partitura del fronte principale
dell’edificio. Così come altrettanto inedita
appariva la tessitura – questa volta
tridimensionale e generata dalla
sovrapposizione di un sistema di puntoni lignei e
di voltine rovesce su una battuta di colonne –
che dava corpo e carattere alla scenografica
Porta Nord della Mostra. L’ingresso
settentrionale progettato da Filo Speziale,
infatti, si risolveva nel disegno di un curvilineo
diaframma che, lasciando permeare la veduta
delle creste crateriche di Agnano, evocava
l’intenzionale trasfigurazione di un impalpabile
velario romano, calcificato, attraverso la tecnica
del cemento armato, nella solidità di una trama
lapidea dai veementi esiti chiaroscurali.
Padiglione della Silvicoltura e del Legno della Mostra d’Oltremare, 1937-1940
In questi e in diversi altri interventi della Mostra
è possibile scorgere l’interesse nutrito da Filo
per un’architettura fondata sulla composizione
di elementi dalla vibrante geometria, sulla
manipolazione della luce abbacinante del “sud”
e del nitore delle sue ombre, sull’orditura di
calibrate quanto vivaci tessiture materiche.
Sollecitata dall’impetuosità del paesaggio
flegreo e dal programma di costruzione di un
vero e proprio nucleo urbano di “fondazione
moderna”, la progettista napoletana adoperò
così lo straordinario “campo di prova” della
Triennale d’Oltremare per mettere a punto una
lirica relazione tra la memoria dell’espressione
costruttiva mediterranea e la migliore cifra
antiretorica dell’avanguardia modernista.
Se è dunque giusto ricercare in quest’aurorale
esperienza i prodromi dell’incessante
sperimentazione progettuale di Filo Speziale, è
altrettanto opportuno, quanto necessario,
tentare di sfuggire alla narrazione “per ossimori”
della già citata e stereotipata “parabola”.
Proprio nella direzione di una rilettura critica di
più ampie vedute – e con l’intento di trarre un
insegnamento che si proietti ancora con forza
nell’attualità – si stanno muovendo, da alcuni
anni, gli studi di chi ha deciso di rintracciare ed
interrogare le preziose fonti archivistiche
superstiti per riscoprire, con l’ausilio dei disegni
originali, la ricchezza delle opere concretamente
realizzate da Filo Speziale tra gli anni Quaranta e
Sessanta del Novecento.
In questo quadro, Palazzo Della Morte,
monograficamente indagato da Marco
Burrascano e Marco Mondello nel 2014, (e oggi
tra le architetture più note e dibattute della
progettista), costituisce indubbiamente uno
straordinario manifesto della sua migliore poetica compositiva. Come fosse una teatrale
“macchina per abitare”, infatti, questo edificio
condensa e mette “in scena” molti dei temi
progettuali insistentemente affrontati, a diverse
scale, da Filo Speziale: il rapporto totalizzante
con l’orografia acclive della città; l’invenzione
tipologica subordinata alla dominante logica
insediativa del progetto (risolta, in questo caso,
attraverso una dinamica corte su due livelli,
scolpita in forma di chiostro-giardino);
l’impianto distributivo filamentoso (che si
spinge fin nelle viscere del sottosuolo,
orientando il visitatore lungo percorsi inusuali e
inattesi); la relazione intensa con il paesaggio
del golfo (acuita dal sistema filtrante di spazi
aperti, terrazze e giardini pensili digradanti
verso il mare); e soprattutto il contatto
inscindibile con la città, alimentato da una serie
di “dispositivi relazionali” capaci di interpretarne
la specificità (le scale aperte, le passerelle
aeree, le figure intarsiate nel quinto prospetto
del palazzo e così via).
Progetto per una casa-atelier a Capri, 1949. Rielaborazione cromatica a cura di Mattia Cocozza
L’architettura, in definitiva, si radica
profondamente tanto al suolo quanto alla storia
e alla forma della città, rielaborandone i
caratteri più eccezionali, come quella poliedrica
idea di “porosità” messa in luce da Benjamin,
propriamente espressa nell’inestricabile
relazione tra spazi aperti e spazi chiusi, nella
commistione tra luoghi pubblici e privati, nel
rapporto tra città di sopra e città di sotto. Ma
Palazzo Della Morte, pur eccezionale nella sua
ricchezza e pregnanza di significati, non
costituisce un isolato “unicum” nella produzione
di Filo Speziale. Così, proprio nel tentativo di
allargare ulteriormente lo sguardo sulle
articolazioni assunte dal tema della casa nella
sua opera, si è tenuta a Palazzo Gravina nel
giugno 2022 – accompagnata dall’omonima
pubblicazione – la mostra “Stefania Filo
Speziale. Abitare la città mediterranea”.
Co-curata da parte di chi scrive, nell’ambito del
progetto “Architetti senza Tempo” – ideato da
Open House Italia e promosso in collaborazione
con la Direzione Generale Creatività
Contemporanea del Ministero della Cultura –,
l’esposizione ha consentito di mettere per la
prima volta in luce, in maniera sistematica, un
cospicuo numero di disegni originali, sino ad
allora in larga parte inediti e
frammentariamente dispersi entro una
moltitudine di archivi pubblici e privati. Proprio a
partire da questi e da altri materiali
successivamente emersi, può essere d’interesse mettere criticamente in tensione tra
loro due specifiche esperienze progettuali, tanto
distanti nello spazio e per programma
funzionale, quanto vicine nel tempo e nella
declinazione di una medesima poetica
architettonica: una casa-studio per artista a
Capri del 1949 e il quartiere INA-Casa di
Agnano del 1953.
Disegnata per la pittrice Nives Sanfelice di
Bagnoli ed eretta sul costone di roccia che
direttamente si affaccia su punta Vivara, la
piccola casa–atelier caprese trae la sua origine
dal riuso e dall’ampliamento di un minuto corpo
rurale di due sole camere. Tutta fondata sulla
dualità tra preesistenza e innesto moderno,
l’intera composizione affida a piccoli scarti
planimetrici, lievi disallineamenti e, anzitutto, ai
diversi trattamenti materici dei prospetti, il
compito di conferire un nuovo carattere alla
casa. La tessitura lapidea ad “opera incerta” che
cinge parzialmente tre fronti del volume, infatti,
dichiara immediatamente la consistenza del
corpo originario, interrompendosi solo laddove
l’involucro murario lascia spazio a severe
bucature rettangolari. Finestre e aperture
trapezoidali a sesto ribassato, al contrario,
caratterizzano l’innesto dell’ampliamento,
semplicemente intonacato di bianco ed
emergente, in altezza, rispetto al recinto di
pietra. Il tetto piano unitario, senza alcun aggetto
e da cui affiora il solo elemento del comignolo,
infine, conferisce all’insieme quell’idea di
stereometrica massività indissolubilmente
legata al mito della casa mediterranea.
All’intensità dei segni e dei colori del paesaggio
di Capri e dei suoi pinnacoli rocciosi si
contrappone così, in un rapporto dialogico “a
distanza”, l’eloquente semplicità di due
parallelepipedi incontratisi a ridosso del mare.
All’altro capo del golfo partenopeo, ma a soli
quattro anni di distanza, Stefania Filo Speziale è
invece impegnata nel disegno del masterplan
generale del quartiere INA-Casa di Agnano,
oltre che nella definizione di alcune delle
tipologie abitative destinate a comporre il nuovo
rione. Le circostanze entro le quali prende corpo
questo progetto, quindi, non potrebbero
apparire più diverse da quelle capresi, non solo
per le evidenti ragioni legate alla scala
dell’intervento e alla committenza, ma anche –
e forse soprattutto – per la discordante natura
dei luoghi. Alle due estremità del golfo di Napoli,
infatti, sorgono paesaggi intimamente differenti
che Raffaele La Capria, nutrendosi delle
intuizioni letterarie di Curzio Malaparte, ha
inequivocabilmente così delineato: “il primo,
quello omerico, fatto di nuda roccia
strapiombante sul mare; l’altro, quello virgiliano,
fatto di tufo, di profonde caverne stillanti, di
verde campagna digradante verso la costa”.
Masterplan del quartiere INA-Casa di Agnano, 1953. Ridisegni critici a cura di Mattia Cocozza
Collocandosi su un frammento del crinale
craterico di Agnano, dunque, il quartiere INACasa
ne introietta anzitutto la matrice
centripeta, avvolgendosi vorticosamente intorno
a una strada a spirale che progressivamente
guadagna quota. La pietra tufacea di quest’area,
a differenza di quella calcarea, si presta ad
essere facilmente lavorata, modellata e
intagliata, tanto che gli edifici vengono incuneati
entro un sistema di impronte e di percorsi
scolpiti nella geometria del terreno. Qui, oltre le
più elevate stecche in linea – votate a mediare
l’incontro del quartiere con la città – sono
soprattutto due lunghi edifici dall’andamento
sinuoso a definire il carattere singolare del
rione. Attraverso un’operazione di astrazione del
dato orografico, i basamenti lapidei ripercorrono
l’andamento delle curve di livello, simulando
l’ideale estrusione dei banchi tufacei su cui si
innesta il complesso residenziale. Anche in
questa occasione, come a Capri, è quindi il
rapporto tra la tessitura di pietra vulcanica dei
basamenti e le bianche superfici intonacate dei
superiori volumi prismatici a rendere esplicito il
ragionamento progettuale che guida la
composizione. Le masse dei volumi di Agnano,
però, dimenticata la serena stereometria che
caratterizza la casa–atelier (ancorata alla solida
roccia dell’isola), si agitano in movimenti
voluttuosi, come a voler esorcizzare l’irrequieto
movimento tellurico che da secoli scuote i
Campi Flegrei. Così, mentre le ombre
scolpiscono i prospetti, rendendo istintivamente
misurabile la profondità delle logge squarciate
nei prismi moderni, i basamenti lapidei continui
conferiscono elegante unitarietà alla sequenza
dinamica di case collettive. Rimarcando già nel
1953 come troppo spesso si fosse “discusso,
studiato, misurato lo spazio di una abitazione
popolare, per cercare di ridurlo alla minima
espressione”, Stefania Filo Speziale si dedicò
ininterrottamente al tema della casa,
affrontandolo con la medesima attenzione nella
sua più ampia ed aperta accezione.
Oltre le più conosciute esperienze delle
abitazioni costruite per la borghesia napoletana
degli anni Cinquanta e pur nella siderale
distanza, i progetti di Capri e Agnano offrono
quindi la testimonianza della capacità di Filo di
fare ricorso a quella medesima ed efficace
“semplicità di mezzi” già registrata da Plinio
Marconi nel 1941. Nutrendosi voracemente
della geografia, della “porosità”, degli “strati”,
della luce e delle ombre del mediterraneo,
semplici gesti architettonici, declinati in
entrambi i progetti con lirica intensità, possono
forse ancora oggi indicare un modo convincente
per conferire forma a un’“idea di abitare” tanto
radicata ai luoghi quanto universalmente “di
tutti”.
Edificio di tipo “B” del quartiere INA-Casa di Agnano, 1953. Ridisegno critico della pianta a cura di Mattia Cocozza e prospetti originali di S. Filo Speziale
Questo articolo è pubblicato in l’industria delle costruzioni 492 -Rassegna italiana. L’innovazione come processo graduale – luglio/agosto 2023
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